Alfonso Arbib – Rabbino capo di Milano
A Pèsach ricordiamo la Yetziàt Mitzràim, l’uscita degli ebrei dall’Egitto. Questo evento centrale della nostra storia non viene ricordato solo a Pèsach ma ogni giorno, più volte al giorno. Lo shabbàt e quasi tutte le feste ricordano questo avvenimento, la mitzvà dei tefillìn e la lettura dello shemà servono a perpetuarne la memoria.
Un grande maestro del Cinquecento, il Maharal di Praga, si chiede perché la tradizione ebraica insista tanto su questo ricordo. Il motivo di tanta insistenza, secondo il Maharal, è che con la Yetziàt Mitzràim, abbiamo smesso di essere schiavi di altri uomini e la libertà è la premessa necessaria al Matàn Torà (dono della Torà). Non si può ordinare di osservare dei precetti a una persona le cui scelte dipendono dalla volontà degli altri, non si può costruire una propria identità se si è soggiogati da un altro popolo. Però, obietta il Maharal, la liberazione dalla schiavitù egizia è solo un momento della nostra storia. Dopo l’Egitto gli ebrei hanno subito altre persecuzioni, altre schiavitù. Eppure hanno continuato a festeggiare il zemàn cherutènu (il tempo della nostra libertà) e a ricordare l’uscita dall’Egitto anche nei momenti peggiori. Che senso ha festeggiare la libertà se non si è liberi? Esistono, dice il Maharal, due tipi di libertà, la libertà esteriore e la libertà interiore.
La libertà esteriore dipende dalle circostanze storiche e il popolo ebraico l’ha persa e riconquistata più volte. Ma la libertà interiore è stata definitivamente raggiunta con l’uscita dall’Egitto. Nella Torà, l’Egitto è chiamato Bet avadìm (casa degli schiavi). La schiavitù non era solo un’istituzione di quella società ma ne permeava la mentalità. Quella egizia era una società piramidale in cui ognuno era schiavo di qualcun altro. La schiavitù era entrata nelle menti e nei cuori di chiunque abitasse in quel paese, anche degli ebrei. Uscire dall’Egitto significa quindi uscire da questo tipo di mentalità, far uscire dalla propria mente e dal proprio cuore la schiavitù interiore.
Si può essere schiavi anche se si è apparentemente liberi e si può essere interiormente liberi anche quando si è in condizione di soggezione materiale. Un grande maestro del secolo scorso, R. E. Dessler, afferma che le feste sono un viaggio nel tempo e a ogni festa ci fermiamo in una stazione particolare.
La stazione di Pèsach è quella della libertà interiore. Una libertà che abbiamo conquistato con la Yetziat Mitzràim ma che dobbiamo ricordare e risvegliare continuamente. La tentazione della schiavitù è sempre presente. La libertà richiede un grande impegno. Un uomo libero è chiamato a pensare con la propria testa, ad assumere le proprie responsabilità. Uno schiavo può fare a meno di tutto ciò, può delegare ad altri le proprie responsabilità, può anche evitare di pensare.
Viviamo in una società fortemente omologata e molte volte i nostri comportamenti e i nostri pensieri sono solo il riflesso del pensiero corrente, di ciò che è ritenuto comunemente corretto. A Pèsach dobbiamo riappropriarci della nostra libertà.
Dobbiamo ricominciare a pensare con la nostra testa, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, sia come singoli sia nei confronti della nostra comunità e del nostro popolo.
Dobbiamo riconquistare la nostra identità.