Da una derashà di Rav Sacks
I primi capitoli del libro di Vaiqrà come è noto sono dedicati al tema dei qorbanot. Queste regole risultano molto difficili da comprendere per l’uomo moderno, ed è ben comprensibile, perché non vengono praticate da quasi duemila anni. Tuttavia i pensatori ebrei, ed in modo particolare i mistici, si sono sforzati di comprendere il significato interiore dei sacrifici e l’espressione di un certo tipo relazione fra l’uomo e D. che per mezzo di essi si afferma.
In questo modo intendevano salvare lo spirito del sacrificio anche ove la sua attuazione fisica non era più possibile. Un commento estremamente semplice, ma molto profondo, viene da Shneor Zalman di Ladi. Il secondo verso della parashah presenta infatti una stranezza grammaticale: “Parla ai figli di Israele e dì loro quando qualcuno di voi presenterà un sacrificio al Signore, presenterete questo vostro sacrificio traendo la vittima dagli animali domestici, dai bovini e dagli ovini”. Il senso del verso è semplice da comprendere, ma l’ordine delle parole nel testo ebraico rivela una stranezza: non è scritto “adam mikkem ki yaqriv”, ma “adam ki yaqriv mikkem”, “quando qualcuno offrirà parte di voi”. L’essenza del sacrificio è l’offerta di parte di se stessi. Offriamo ad H. le nostre facoltà, i nostri pensieri, le nostre emozioni. L’offerta di un animale sull’altare è la manifestazione esteriore di un atto interiore.
Cosa offriamo in sacrificio ad H.? I mistici distinguono sostanzialmente fra due anima, l’anima animale e un’anima superiore che possiamo definire divina. Da una parte siamo esseri fisici, siamo parte della natura e abbiamo bisogni fisici, mangiare, bere, avere un riparo. Nasciamo, viviamo, moriamo. Come dice il Qohelet (3,19): “poiché la sorte degli uomini e la sorte degli animali è per essi una sorte unica, come muore questo così muore quello, tutti hanno lo stesso animo vitale; l’uomo in nulla è superiore all’animale perché tutto è vanità”. Eppure non siamo solamente degli animali. Abbiamo desideri ,pensieri, parole con i quali possiamo raggiungere gli altri. Siamo l’unica forma di vita a noi nota nell’universo che può porre la domanda “Perché?”. Questa tensione fra animalità e eternità viene in qualche modo spiegata psicologicamente per mezzo del sacrificio. Non offriamo solo un animale, ma la nostra anima animale. Come avviene? Un’indicazione viene dagli animali che vengono indicati nel versetto: behemah, baqar e tzon. Ognuno rappresenta un tratto animale che caratterizza l’essere umano. Behemah è l’istinto animale stesso, l’animale domestico, non animato dall’istinto del predatore. Questo tipo di animale spende la propria esistenza limitandola per via della ricerca del cibo. Sacrificare questo tipo di anima vuol dire essere mosso da qualcosa di più della ricerca della sopravvivenza. Nelle Ricerche filosofiche Wittengstein si chiede quale sia il compito della filosofia, rispondendo che è quello di mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia. Una mosca, intrappolata in una bottiglia, sbatte la testa contro il vetro, perché incapace di cercare. La nostra anima divina è quella che ci spinge ad andare oltre la semplice sopravvivenza, cercando di conferire significato alla vita. Baqar ricorda boqer, l’alba, i raggi del sole che irrompono nell’oscurità della notte.
La rottura delle barriere. Il baqar, il bestiame, se non è rinchiuso in un recinto non rispetta i confini. Sacrificare il baqar vuol dire imparare a riconoscere l’esistenza di confini e rispettarli, tra sacro e profano, puro e impuro, permesso e proibito. Tzon è l’istinto del gregge, la spinta a muoversi in una certa direzione semplicemente perché gli altri stanno facendo così. Le più grandi figure della nostra tradizione, Avraham, Mosheh, i profeti, si distinguevano proprio per via della loro capacità di distinguersi dalla massa. Questo è il senso primario e fondamentale della qedushah, qadosh è qualcosa di separato, diverso, distintivo. Nella storia gli ebrei tante volte si sono rifiutati di assimilarsi alla cultura o alla fede dominante. Quando parliamo di sacrificio nel mondo attuale pensiamo ad una privazione, ma il senso originario del termine è quello di avvicinamento. Non rinunciamo a qualcosa, ma avviciniamo qualcosa a D. Portiamo il nostro elemento animale per trasformarlo attraverso il fuoco divino. Per un’ironia della storia questa idea è divenuta profondamente attuale. Il darwinismo e il materialismo scinetifico hanno condotto all’idea diffusa che siamo degli animali a nulla di più. Condividiamo la quasi totalità dei nostri geni con i primati.
Secondo questa visione l’homo sapiens esiste solamente per caso. Siamo il risultato di una serie di mutazioni casuali che ha portato al predominio di una specie, più adatta alla sopravvivenza, a discapito delle altre. L’anima animale, secondo questa visione, è l’unica esistente. La confutazione di questa idea, indubbiamente riduttiva, risiede proprio nell’idea stessa di sacrificio, così come i mistici hanno intuito. Gli uomini hanno la capacità di reindirizzar e i propri istinti. Possono superare il semplice istinto di sopravvivenza. Possono rispettare i confini imposti. La natura non ci impone ciò che dovremmo accettare e non ci dice come dovremmo vivere. O, come diceva Katharine Hepburn diceva ad Humphrey Bogart nella regina d’Africa (1951), “la nostra natura, Signor Allnut, è ciò che ci tocca in questo mondo perché la si possa superare”. Possiamo superare il nostro essere behemah, baqar, tzon. Nessun animale è in grado di auto-trasformarsi, noi sì. Tante espressioni del nostro essere ci dicono che non siamo solo degli animali, un’unione di geni egoisti. Attraverso il sacrificio non siamo più schiavi della natura, ma servitori di H.