Vayechì. Non prevedere il futuro
(da una derashah di Rav Sacks)
Nella parashah di Waychì Ya’aqov, in punto di morte, convoca i figli, perché intende benedirli. Il testo tuttavia presenta una strana semiripetizione (49,1-2): inizialmente infatti Ya’aqov dice ai figli che intende rivelare quanto accadrà loro alla fine dei giorni, ma nella seconda frase omette questo aspetto, e in generale le benedizioni non contemplano questo aspetto.
Rashì, basandosi sul Talmud, dice che Ya’aqov effettivamente rivelare loro il futuro, ma la Presenza divina si allontanò da lui. Voleva prevedere il futuro, ma si accorse che non poteva.Non si tratta di un particolare di secondaria importanza, ma di un principio fondamentale. Quando si parla di esseri umani non è possibile prevedere il futuro. Noi per mezzo delle nostre scelte generiamo il nostro futuro. Questa è una grossa differenza fra la cultura ebraica e quella greca. I Greci infatti credevano nel destino, la Moira, o il destino cieco, l’anankè. Quando l’oracolo di Delfi rivelò a Laio che avrebbe avuto un figlio che lo avrebbe ucciso, prese tutte le precauzioni possibili affinché ciò non avvenisse. Lo inchiodò per i piedi ad una roccia lasciandolo morire.
Un pastore che passava di lì lo salvò, e il bambino venne allevato dal re e dalla regina di Corinto. Il resto della storia è noto. La previsione dell’oracolo si verificò puntualmente e ogni atto volto a evitare il compimento della profezia, in realtà lo avvicinava. Tutti i tentativi di evitarlo si rivelano inutili. Da questa visione del mondo deriva la tragedia, uno dei concetti più grandi che la grecità ha offerto al mondo. Nonostante le secolari sofferenze del popolo ebraico, non c’è nell’ebraico biblico un termine che designi la tragedia. C’è ason, che è un disastro, una calamità, ma non una tragedia nel senso classico, dove l’eroe deve confrontarsi con una carenza nel proprio carattere o con una forza superiore, come il destino, soccombendo. L’ebraismo non ha un termine che esprima questa idea, perché non la condivide. Non esiste un destino inesorabile. Siamo liberi. Possiamo scegliere. Questo è espresso con forza nell’Untannè toqef che recitiamo negli Yamim noraim. Affermiamo infatti che H. stabilisce chi vivrà e chi morirà, ma subito dopo diciamo che la teshuvah, la tefillah, la tzedaqah tolgono il decreto negativo. Non esiste nessuna sentenza contro la quale non possiamo appellarci, nessun verdetto che non possiamo mitigare mostrando che siamo cambiati.
Troviamo un classico esempio di questo approccio nel Tanakh, nel secondo libro dei Re e nel libro di Yesha’yahu, riguardo il re Chizqiahu. Yesha’yahu preannunciò al re malato la morte, il re pregò e pianse amaramente, e H. modificò il suo verdetto, sopravvivendo altri quindici anni. Pertanto, dice il Talmud, anche se abbiamo una spada affilata sul nostro collo non dobbiamo desistere dalla preghiera. C’è una differenza fondamentale fra una previsione e una profezia. Se una previsione si avvera è riuscita. Una profezia che si avvera è un fallimento. Il profeta dà solamente un avvertimento. Non dice che qualcosa accadrà, dice che accadrà a meno che tu non cambi. Il profeta si rivolge alla libertà umana, non richiama il destino. L’uomo nella nostra era conosce molto, nell’ordine del molto grande e del molto piccolo, ma non sa cosa il domani porterà. Quando parliamo del mondo naturale possiamo fare dei calcoli estremamente precisi sul movimento dei pianeti, ma la natura umana si sottrae a questi calcoli. Spesso le persone ci sorprendono, perché siamo liberi. Un pessimo studente a scuola può diventare un premio Nobel. Un leader deludente può risolvere improvvisamente una crisi con il suo coraggio e la sua saggezza. Un uomo d’affari cinico e spietato può dedicare l’ultima parte della sua vita alla filantropia. Tante persone di successo erano considerate delle perdenti, che non avrebbero ottenuto alcun risultato. Sfidiamo le previsioni, e la scienza non è un grado di spiegarlo.
Non siamo degli oggetti, ma dei soggetti, non totalmente piegati alla casualità del mondo fisico e naturale. Siamo liberi perché siamo fatti ad immagine divina, un D. della libertà che libera il suo popolo per renderlo la viva testimonianza della libertà. Siamo noi a scrivere il nostro futuro. Tutto dipende dalle nostre scelte, dalla nostra tenacia e determinazione. La prova è il popolo ebraico. Il primo riferimento extrabiblico ad Israele è la stele di Merneptah, che risale al XIII sec. a.e.v., che dava il popolo ebraico per spacciato. Tante volte i nostri nemici hanno scritto il necrologio d’Israele, ma siamo ancora qui. Per questo, quando Ya’aqov voleva rivelare il futuro ai suoi figli, non gli fu concesso. Siamo liberi, e con l’aiuto delle benedizioni divine, possiamo diventare più grandi di quanto possiamo immaginare.