Può un ebreo diventare estraneo a sé stesso, fino a viversi come un alieno (Achèr)? Perché e quando un ebreo dovrebbe praticare un’alienazione ebraica? In quali forme gli altri ebrei dovrebbero fare propria la crisi di questo ebreo?
Il talmud affronta questo tema, riferendo la storia di Elish’a ben Avujàh (TB Chag.15ab; Qidd.39b;TJ Chag 2:1,17-18; Dev.R. 7:4; Qohel. R. 7:18) Questo maestro, contemporaneo di Rabbì ‘Aqivà, era nato poco prima della distruzione del Tempio ed era sopravvissuto alla sanguinosa rivolta di Bar Kochbà. In questa cornice storica aveva collocato la sua problematica religiosa: l’ingiustizia del male nel mondo; l’assurdità del dolore ebraico; la futilità di una vita dedicata alla toràh; la disperazione di una esperienza diretta con D-o. Aveva risolto la sua crisi, tagliando le radici : rompere con la toràh fino a denunciare gli ebrei che osservavano le mizvoth ed allontanare i bambini dal Beth haMidrash. I maestri avevano percepito con chiarezza la violenza etica della sua terribile scelta; avevano colto il dolore di un uomo che aveva capito di essere Achèr (Altro, nel senso di straniato, trasformato o alienato) e che si era ribellato all’ingiustizia divina convinto che la sua sfida fosse obbligata quanto suicida e senza ritorno.
E’ importante ricostruire questa storia di vita, nell’ottica talmudica, considerando in successione: il pensiero ebraico di Elish’a; i motivi che lo hanno portato a trasformarsi in Achèr; la sua lunga discussione della propria crisi; l’elaborazione fatta dai maestri sul suo insegnamento.
Le idee di Elish’a ben Avujàh
(cfr Avoth deRabbì Natàn 24:1-7):
1) soltanto chi costruisce lo studio della torah sulle opere buone sopravvive a qualsiasi bufera;
2) soltanto chi studia toràh da bambino assorbe la toràh nel suo sangue;
3) la toràh si acquista al prezzo dell’oro purissimo e si frantuma come il vetro;
4) la toràh si può apprendere in ventiquattro anni e si può cancellare in due anni; se il muro della vigna cade, tutta la vigna viene subito distrutta;
5) chiunque fa fare una mizvàh ad un altro ebreo è come se lo avesse fatto con il suo corpo, in base al verso ” (la toràh) non è qualcosa vuota di voi stessi perché è la vostra vita” .
Il pensiero di Elish’a ben Avujàh è radicale:
a) la toràh è l’anima dell’ebreo; lo studio della toràh è autentico soltanto se entra nel sangue; basta un’amnesia o un cedimento e tutta la toràh può essere distrutta;
b) la toràh sopravvive soltanto attraverso la pratica delle opere buone; le mizvot sono vive e vitali soltanto quando si riesce a farle volare nella relazione con D-o.
c) un’incrinatura della toràh diventa una perdita totale ed irrevocabile; si può nascere dentro la mizvàh soltanto facendo fare una mizvàh ad un altro ebreo.
Elish’a ben Avujàh cerca di vivere due contraddizioni laceranti e impossibili: l’idealizzazione estrema della toràh che deve diventare un vissuto corporeo degli ebrei; la disperazione dovuta alla perdita della toràh che diventa la ricerca provocatoria di D-o.
La storia della rottura esistenziale di Elish’a ben Avujàh aggiunge una terza dimensione alle sue già difficili contraddizioni: se D-o è ingiusto, D-o esiste; se non posso accettare D-o , devo combattere contro gli ebrei, vita contro vita, per eliminare la pericolosità della toràh.
I motivi dell’alienazione
di Elish’a ben Avujàh.
Il talmud ed il midrash forniscono diverse versioni che presuppongono uno sviluppo annunciato lento ed articolato di questa frattura:
il padre di Elish’a avrebbe augurato al figlio, nel giorno della sua milàh, di diventare un grande maestro; per un amore narcisistico e non per amore della toràh; la madre di Elish’a, mentre era incinta, avrebbe aspirato i profumi di un culto idolatrico;
Elish’a avrebbe sempre canticchiato in greco ed avrebbe sempre studiato, di nascosto, i testi dei minìm (con probabilità testi gnostici, in cui si ammetteva la presenza di un Angelo del Male in grado di imporsi a D-o);
Nell’iniziazione mistica del Pardès, Elish’a avrebbe ignorato le precauzioni suggerite da Rabbì ‘Aqivà (“quando vedrete un pavimento di marmo luccicante, non gridate acqua acqua”) e, confondendo tra marmo ed acqua avrebbe scelto di tagliare le radici.
Assistendo ad alcune morti, per lui palesemente ingiuste ( la morte infamante di due maestri di toràh; la morte di un ebreo proprio mentre cercava di realizzare due mizvoth, per cui la toràh garantisce lunga vita), Elish’a avrebbe concluso che D-o non esercita la Giustizia (e la Misericordia) nel mondo.
Sviluppo e discussione della crisi.
Una volta percepita la rottura, Elish’a fa la scelta piuttosto curiosa di non diventare un apostata, un eretico o un agnostico ma di provocare D-o, provocando ebraicamente gli ebrei:
va da una prostituta per agire davanti a lei una trasgressione dello shabbath;
denuncia gli ebrei che, rischiando la condanna a morte dei romani cercano di rispettare lo shabbath ( per es. trasportando un oggetto in due persone o fermandosi entro lo spazio dei quattro passi, per dimezzare la trasgressione dello shabbath);
va pubblicamente a cavallo di Shabbath e, persino, il giorno di Kippur quando cade di Shabbath;
affronta Rabbì Meir, suo allievo, su tre argomenti principali:
a) l’esistenza di due Potestà nel mondo e la conseguente responsabilità di D-o per l’esistenza dei malvagi e del male;
b) il maggiore o minor valore delle azioni che si compiono in età matura rispetto a quelle che si compiono all’inizio della vita ;
c) l’impossibilità di fare teshuvàh, specialmente per lui stesso. Per tutti e tre i temi, Elish’a cambia il suo precedente pensiero, citando i suoi insegnamenti così come sono stati ribaltati da Rabbì ‘Aqivà ( che definisce vero maestro di Rabbì Meir).
Il marmo e l’acqua.
Elish’a rompe la sua relazione assoluta con la toràh perché crede che D-o sia ingiusto. Questa crisi è raccontata come la reazione ad avvenimenti storici (le morti ingiuste). Anche il racconto del viaggio mistico di Elish’a potrebbe avere questo stesso significato. Rabbì ‘Aqivà aveva avvisato: “quando vedrete un pavimento di marmo luccicante non gridate acqua acqua”. Le ipotesi su questa visione annunciata sono diverse; rispetto ad Elish’a se ne possono discutere due:
* ‘Aqivà sa che prima di vedere il trono di D-o, si vedrà il pavimento su cui il trono poggia; il pavimento sembrerà di marmo, ma in realtà nasconderà le acque superiori ed inferiori che costituiscono il cielo; quello che sembra Giustizia assoluta (il marmo) è in realtà un miraggio dietro cui si cela la Misericordia divina (le acque);
* ‘Aqivà sa che, nel viaggio mistico, i maestri vedranno subito che il marmo è in realtà acqua e saranno presi dal terrore per non essere capaci di camminare sull’acqua (cfr Rashi in TB Chag.14b); se la Misericordia divina è assoluta, non è più possibile orientarsi e dare un significato alle azioni umane.
Per ambedue le ipotesi, ‘Aqivà vede quello che Elish’a non riesce o non accetta di capire: la dialettica tra Giustizia e Misericordia è necessaria perché il mondo possa sopravvivere. Per vedere D-o, faccia contro faccia, è necessario vedere l’equivalenza del marmo e dell’acqua e tacere.
Davanti al dolore degli altri uomini Elish’a non sa tacere e grida contro D-o. Perché il marmo non è acqua? Perché non si può camminare sull’acqua?
L’elaborazione dei maestri.
Per almeno quattro-cinque generazioni i maestri hanno continuato a riflettere sulla scelta di Achèr e sul significato del suo insegnamento. Il talmud racconta questa sequenza:
Rabbì Meir dichiara che, in punto di morte, Acher ha capito che era possibile, anche per lui, fare teshuvàh,
Sulla tomba di Achèr nasce un cespuglio di rovi; Rabbì Meir dichiara che, dopo la propria morte, riuscirà a far capire che Elish’a ha fatto teshuvàh; dopo la morte di Rabbì Meir il rovo sulla tomba di Elish’a comincia a bruciare;
Dopo quattro generazioni, Rabbì Iochanàn dichiara che, dopo la propria morte, riuscirà a far capire che la teshuvàh di Elish’a è stata accettata; dopo la morte di Rabbì Iochanàn il roveto ardente, sulla tomba di Elish’a, smette di bruciare.
Rav E. Dessler, un maestro di questo secolo, fornisce questa interpretazione: R.Meir e R. Iochanàn rappresentano gli allievi vicini e lontani di Elish’a; la continuità del loro insegnamento testimonia che la toràh di Elish’a ha continuato a vivere. R.Meir riesce a dimostrare che le scelte di Elish’a erano state pienamente responsabili e che Elish’a si è assunto il peso ed il dolore di tutte le proprie scelte-colpe-sfide-preghiere. R.Iochanàn riesce a dimostrare che il dolore e la ribellione di Elish’a hanno avuto un significato: non è vero che la toràh può essere dimenticata; è vero che il vetro è fragile ma, se esiste la teshuvàh, il vetro può superare qualunque distruzione.
Due ultime note
Nel Talmud (TB Qidd. 39b) è riferito che R. Ia’aqov (figlio della figlia di Elish’a ben Avujah) vedendo morire, come era successo al nonno, un ebreo proprio mentre realizzava una mizvah, ha detto: ogni morte ingiusta prova che D-o deve saldare i suoi debiti nel mondo a venire. Rav Iosef ha aggiunto: se Elish’a avesse imparato da suo nipote non sarebbe diventato Achèr.
Secondo i tossafisti (TB Toss.-Acherìm in Sot. 12a, Ber.9b, ‘AZ 66b) alcuni insegnamenti di Elish’a ben Avujah sono stati trasmessi da Rabbi Meir e sono citati nel talmud a nome di Acherim (Altri).Due tra questi specifici insegnamenti a nome Acherim ci sembrano pertinenti:
1) durante la persecuzione egiziana Moshè sarebbe nato circonciso; l’inevitabilità storica della sfida contro la persecuzione corrisponde all’inevitabilità della mizvah;
2) gli ebrei possono fare la mizvàh del talleth quando all’alba c’è abbastanza luce perché un uomo possa riconoscere un altro uomo a quattro passi: non esiste una mizvàh verso D-o se non si è capaci di vedere l’altro uomo.
Luglio 1998 – Shalom