Una guida religiosa dovrebbe incarnare un ideale di moderazione e convivenza pacifica
L’attentato all’autobus di Gerusalemme impone nuovamente delle riflessioni sulle componenti intricate di un conflitto infinito e in particolare sul ruolo che vi hanno le religioni. Non passano inosservati i dati biografici sul giovane attentatore, padre di due figli, insegnante di scuola elementare e guida religiosa della sua comunità. Un curriculum personale che in una società diversa potrebbe rappresentare un ideale di moderazione, di convivenza, di costruzione di un mondo pacifico.
In un contesto differente il padre, il maestro, l’uomo di fede diventa suicida e massacratore di innocenti, bambini compresi, colti a caso nel mucchio. Il gesto sbatte di nuovo brutalmente in faccia a tutti la realtà di un modo di vivere la religione ben diverso da quello che la nostra società si aspetterebbe. Qui c’è chi cerca di riunire le religioni per pregare per la pace (cosa che è ancora diversa e lontana dal fare la pace); altrove c’è chi invece usa la religione come un solido cemento identitario e una carica esplosiva (letteralmente, non solo in senso metaforico) per sostenere progetti politici in cui la volontà di risolvere un tragico problema locale si mescola a ideologie esasperate di odio e di intolleranza. La società attuale «occidentale» è vissuta fino a poco fa nell’illusione che tutte le sue parti, religioni comprese, potessero contribuire a sostenere il suo modello di democrazia e libertà, da esportare ovunque. Ma a quanto pare chi lo dovrebbe ricevere con soddisfazione non è molto d’accordo e reagisce male. La scarsa comunicabilità dei sistemi, dall’Iraq all’Israele-Palestina e in altre zone di confine, è un dato di fatto e le reazioni di forza da sole non potranno risolverla.
La religione in questa opposizione gioca un ruolo determinante; la domanda è dove sia la grande tradizione dell’Islam che parla in nome del Dio «clemente e misericordioso», dove sono le forze e le guide che lo rappresentano, mentre sembrano prevalere l’involuzione e la chiusura.
Le vittime ebree dell’attentato sono state in maggioranza famiglie di religiosi, con molti bambini. Non è la prima volta che il terrorismo si accanisce specificamente su dei religiosi. Nella composita società israeliana, le divisioni interne sono profonde e laceranti, e l’identità religiosa, nelle sue ulteriori divisioni interne si pone spesso in contrasto con i modelli politici e gli ideali prevalenti nella società israeliana. Ma l’attentato non ha fatto distinzioni, costringendo a riunire idealmente una società che non è affatto unita se non nel perverso disegno di chi ormai considera l’ebreo (non l’«israeliano», o il «sionista») un’unica entità da colpire e distruggere, nel suo cuore spirituale e geografico. E’ tragica attualità, ma è anche una storia antica. Si può citare un commento rabbinico ai versi del profeta Isaia (66), quando dice «Gioite per Gerusalemme.. rallegratevi con lei tutti coloro che sono in lutto per lei… Ecco io stendo su di lei la pace come un fiume». I rabbini circa 18 secoli fa dicevano in proposito: «La pace è tanto cara, che il Signore Benedetto consola Gerusalemme solo con la pace» (Devarim Rabba 5:14). Quanto ancora dovremo aspettare per questa consolazione?
Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma
Corriere della Sera