16. Il quinto principio della Teshuvah è la preoccupazione (deagah) relativa all’incombente punizione, come dice il versetto: “Ammetterò la mia trasgressione ma sono preoccupato per il mio peccato” (Tehillim 38,19). Per alcune trasgressioni, infatti, l’espiazione è sospesa finché non intervengono le sofferenze a purificare: come lo yagon riguarda il passato, la deagah riguarda il futuro. Secondo motivo di preoccupazione è l’eventalità che tutto ciò che si compie per la Teshuvah (preghiera, digiuno, pianto, afflizione, amarezza) possa non essere ancora considerato sufficiente, come dice Shelomoh: “il chakham ha paura, sebbene si sia allontanato dal male, mentre lo stolto è fiducioso, ancorché si adiri” e in questo modo si espone ulteriormente alla punizione (Mishlè 14,16; M. Tanchumà, Lekh Lekhà, 15).
17. In terzo luogo il Ba’al Teshuvah deve preoccuparsi che l’istinto non abbia il sopravvento su di lui, essendo stato battuto da questo già una volta, incrementando il Timore di H.: “non credere in te stesso fino al giorno della tua morte” (Avot 2,4).
18. I giusti onorano gli individui per i loro pregi, mentre i malvagi vanno invece alla ricerca dei difetti degli altri per umiliarli (cfr. Mishlè 28,12). Ne consegue che è opportuno per il Ba’al Teshuvah tenere nascoste agli altri le sue manchevolezze del passato, sebbene la confessione sia di per sè un obbligo (Mishlè 28,13; Tehillim 32,5; Yirmeyahu 2,35). Come si regolerà? Confesserà a voce alta solo le trasgressioni commesse verso il prossimo, per le quali c’è anche obbligo di risarcimento e dunque di ammissione, o quelle verso H. che siano note ai più (la Profanazione del Nome si ripara mediante la Santificazione del Nome in pubblico).
19-20. In sintesi “colui che ammette e abbandona la cattiva azione avrà misericordia”: ammettere comprende il rimorso (charatah) e la confessione (widduy). La Teshuvah non può non comprendere charatah, widduy e ‘azivat ha-chet, cui si aggiunge il timore, come dice il versetto: “Benedetto l’uomo che ha sempre timore, mentre colui che indurisce il proprio cuore (convinto di aver fatto tutto il necessario) cadrà nel suo stesso male (cioé per opera del suo stesso istinto che gli tende agguato costante)” (Mishlè 28,14).
21. Il sesto principio è la vergogna (bushah: cfr. Yirmeyahu 31,18). Se ci si vergogna di trasgredire davanti agli altri uomini e si cerca di nascondersi, perché non si prova simile vergogna di comportarsi male davanti a H.? Il Talmud racconta che alla morte di R. Yochanan ben Zakkay questi disse ai suoi discepoli: “Possiate avere del Cielo almeno altrettanto timore di quanto non ne provate per gli uomini!” I discepoli gli dissero: “Tutto qui?” Ed egli replicò: “Magari…” (Berakhot 28b).
22. La vergogna da provarsi verso H. deve giungere al punto di alterare l’espressione del peccatore in volto (kelimmah, più forte della bushah).Tanto più forte dev’essere la kelimmah a fronte di un atto di rachamim di H. verso il peccatore il quale, se trasgredisse dinanzi a un re terreno, eccome se non si vergognerebbe! Il Talmud afferma che “colui che prova vergogna per ciò che ha fatto viene assolto da tutti i suoi peccati” (Berakhot 12b): lo si impara da Shaul il quale fu riammesso al cospetto del Profeta Shemuel solo dopo aver dimostrato vergogna per la strage dei Kohanim di Nov (1Shem. 28, 15-19).
23. Il settimo principio è la resa (keni’ah) davanti a H., nella consapevolezza della propria umiliazione. Il re David, rimproverato dal Profeta Natan, ammise: “Tu H. non disprezzi il cuore affranto e contrito” (Tehillim 51,19).
24. Le vie della resa sono molteplici, ma la più gradita consiste nell’aumentare il proprio impegno nella ‘Avodat H., in forma riservata, senza attribuire alcun merito a se stesso, nè pretendere onori e ricompense per il bene che si fa.
25. Non si tratta di compensare con offerte sacrificali dispendiose, perché nessuno è in realtà conscio del reale valore delle proprie trasgressioni: “…che cosa H. richiede da Te? Mettere in pratica la giustizia, amare la bontà, e procedere modestamente con il Tuo D.” senza vantarsene (Mikhah 6,6).
26. La keni’ah ha anche la funzione di aiutarci a mettere da parte i difetti e le negatività che ci hanno portato alla trasgressione.
27. La superbia (gaawah) è “il solco dei malvagi” (Mishlè 21,4) da cui spuntano le trasgressioni, dopo avervi “seminato” i cattivi pensieri. Secondo un’altra interpretazione la superbia in quanto tale è di per sé una trasgressione. Il superbo è consegnato nelle mani del suo istinto: essendo “abominio di H.” (Mishlè 16,5), H. non lo aiuterà.
28. Eliminare la superbia significa anche comportarsi umilmente con agli altri esseri umani: non adirarsi, non serbare rancore, non fare caso alle contumelie e soprattutto rinunciare alle proprie prerogative e non reagire alle offese: “Colui che rinuncia alle sue pretese viene assolto da tutte le sue trasgressioni” (Rosh ha-Shanah 17a).
29. L’ottavo principio consiste nell’adottare la kelimmah anche negli atti esteriori: “rispondere a voce bassa (ma’aneh rakh) ha il potere di contenere l’ira (altrui”. Mishlè 15,1), in contrasto con i re e i potenti che tendono invece ad alzare la voce. Occorre tenere lo sguardo abbassato e non indulgere in abiti sgargianti e gioielli.
30. Il nono principio consiste nell’abbattere i desideri materiali (shevirah), veicoli di trasgressione. Occorre astenersi anche dai piaceri permessi, mangiando solo quanto è strettamente necessario al proprio sostentamento (Mishlè 13,25) e indulgendo alla sessualità solo per quanto è funzionale alla procreazione e alla Mitzwah del periodo (‘onah). Assecondare i desideri porta ad avvicinarsi alla materia distanziandosi dalla via dell’anima intellettuale facendo sì che l’istinto abbia il sopravvento su di noi. Dice il Talmud: “Vi è un piccolo organo nel corpo umano: quanto più lo si sazia, tanto più si mostra affamato; vìceversa quanto più lo si affama, tanto più si mostra sazio” (Sukkah 52b).