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“Non sarà in te divinità straniera e non ti prostrerai a un dio alieno” (Sal. 81). Il Talmud (Shabbat 104) si domanda quale divinità straniera possa mai albergare nell’animo di un ebreo. La risposta è affascinante. Si tratta della collera. La collera ottenebra l’intelletto dell’uomo facendolo uscire di senno. Oggi gli dice: “fa’ questo” e l’uomo supinamente esegue. Domani gli dice: “fa’ quest’altro” e l’uomo obbedisce, finché un giorno gli ordina: “fa’ idolatria” e l’individuo cade in trappola sul più grave divieto della Torah.
In molti episodi della Torah Moshe dimenticò la Halakhah perché si era adirato. “E Moshe si adirò con gli ufficiali dell’esercito” perché di ritorno dalla guerra contro Midian non avevano eseguito tutti gli ordini. E le regole sulla purificazione degli utensili compresi nel bottino furono dettate da suo nipote El’azar. Insomma “H. tiene il mondo sospeso sul nulla”: lett. beli-mah, espressione che il Talmud (Chullin 69) legge come un’unica parola che ha il significato di “tener la bocca chiusa”!
La domanda ritorna sui versetti della Berakhah che Ya’aqov in punto di morte dà a due dei suoi figli: Shim’on e Levì. Berakhah si fa per dire. “Maledetta la loro ira perché era forte, la loro rabbia perché era dura… Li spargerò in Ya’aqov e li sparpaglierò in Israele”. Perché il padre si adira a loro volta con loro? Perché avevano sterminato l’intera popolazione intorno a Shekhem figlio di Chamor, reo quest’ultimo di violenza contro la loro sorella Dinah. Il Midrash attribuisce loro anche il proposito di voler uccidere Yossef, colpevole di maldicenza nei loro confronti. Come è possibile a questo punto che Ya’aqov e i suoi figli, che conoscevano la Torah ante litteram, si siano lasciati andare alla collera vicendevolmente? E’ vero che Rashì giustifica la durezza di Ya’aqov verso Shim’on e Levì dicendo che alla fine wayvarekh otam, il Patriarca benedisse tutti i suoi figli e anche questi erano compresi nella Berakhah generale. Ma questi versetti richiedono una spiegazione.
Alcuni commentatori spiegano il fatto in base a un passo del Talmud in Ta’anit 4a. “Diceva Ravà: Un Talmid Chakham che ribolle è la Torah che ribolle in lui, come è detto (Yerm.): “La Mia Parola è come fuoco, dice H.”. Insomma, merita di essere giudicato dal lato buono: avendo studiato più degli altri, è portato a notare più facilmente i loro difetti e a scandalizzarsi. “Ravinà aggiunge: in ogni caso è opportuno che si abitui a comportarsi con calma (nichuta)”. Insomma l’ira non è un atteggiamento commendevole neppure in chi abbia studiato. Forse proprio perché ha studiato. I Pirqè Avot ammoniscono a loro volta: “Sii difficile ad adirarti e facile a placarti”. Rav Moshe Feinstein dedica uno dei suoi Responsa (Iggherot Moshe, Orach Chayim, I, 54) ad analizzare il passo del Talmud sotto il profilo della Halakhah. Conclude che è sempre opportuno mantenere la calma, anche se non sempre ciò è possibile. Vi sono poi dei casi in cui anche se uno si è nel frattempo adirato non può far vedere che si calma all’improvviso.
Sono quei casi in cui l’interlocutore ha assunto un atteggiamento contrario alla Halakhah su un din non conosciuto ed è stato ripreso. Perseverando nell’errore, ha suscitato l’ira del Maestro. Se questi si calmasse subito, potrebbe generare negli astanti l’impressione di essersi nel frattempo ravveduto sulla Halakhah volendo mascherare in questo modo il proprio errore precedente: come se, mostrando di calmarsi senza aggiungere altro, coprisse il suo imbarazzo. Per una questione di coerenza il Maestro non può far altro che mantenere il broncio. Ma se si trattasse di una Halakhah nota a tutti, è invece opportuno che il Maestro si plachi subito a fronte dell’infrazione dell’interlocutore: in questo caso la calma del Maestro verrà senz’altro recepita dagli astanti non come una tacita ammissione di ignoranza, ma come un atto di misericordia verso le umane debolezze.
Il Maor wa-Shemesh dà una differente interpretazione del passo talmudico. Il Talmid Chakham è portato all’ira -scrive- contro se stesso. Ogni volta che un quisque de populo lo approccia, il Maestro si rimprovera di aver dovuto dedicargli del tempo per cose triviali a spese del proprio studio della Torah. E’ un atteggiamento comprensibile, ma sbagliato. In un altro passo il Talmud ammonisce che il Talmid Chakham deve avere da’atò me’orevet ‘im ha-beriot, deve cioé essere vicino alla gente. Capire le loro necessità, sebbene siano molte volte a un livello più basso del suo. Ya’aqov, che peraltro si limitò a maledire solo la collera di Shim’on e Levì e non le loro persone, non pronunciò nei loro confronti un verdetto spropositato. Non fu preso dall’ira a sua volta. Anzi. Decretando la dispersione di Shim’on e Levì in mezzo al popolo mostrò di affrontare con lucidità il loro problema. Invece di pensare solo al vostro studio -avrebbe detto loro- venite a contatto con gli altri. Anche questo è parte integrante della Torah.
E non è un caso che per indicare il popolo nomini prima Ya’aqov e poi Israel. Ya’aqov -insegnano i Maestri- indica gli strati più umili. Cominciate da questi. Poi vi dedicherete anche a Israel, la elite dei dotti come voi.