Un elemento che accomuna molte società, anche molto diverse fra di loro, è la presenza dell’antisemitismo in ampie fasce della popolazione. Non dobbiamo stupirci di questo fatto, in quanto nella Haggadah di Pesach affermiamo che “bekhol dor wador – in ogni generazione vogliono sterminarci”, ma d’altra parte i criteri sociologici non sono sufficienti per giustificare un fenomeno tanto diffuso in realtà che hanno ben poco in comune fra di loro. Nella parashah che abbiamo letto oggi è scritto “H. badad yanchenu” – secondo una delle possibili letture dei commentatori, “il Signore si occupa del popolo ebraico totalmente da solo”, ad escludere la possibilità che il popolo ebraico possa essere accomunato agli altri popoli, il destino dei quali è assegnato ad altri ministri nella gerarchia celeste.
Per noi “en ‘immò el nekhar – non c’è con Lui una divinità straniera”. Il monoteismo ebraico, come è scritto in massekhet Chaghigàh[1], spiegando il primo verso dello Shemà, afferma non solo che D. è uno, ad escludere la possibilità che ve ne siano di più, ma anche che è unico. Come H. è echad, così il popolo ebraico è “goy echad baaretz”. La conseguenza di questo fatto, già come affermato da Bil’am nella parashah di Balaq[2] – “hen ‘am levadad yishkon -ecco un popolo che risiede da solo”, e come verrà ribadito nell’ultima parashah della Torah[3], che leggeremo la prossima settimana – “wayishkon Yisrael betach badad – Israele se ne starà tranquillo e appartato” – è l’isolamento di Israele. Il midrash[4] si chiede cosa voglia dire il termine “hen”, che apre il discorso di Bil’am. Tutte le lettere dell’alfabeto hanno una compagna: la alef unita alla tet dà come somma dieci, così come la bet e la chet, e così via. L’unica a rimanere sola e non avere compagni è la lettera he, che ha il valore numerico di cinque. Fra le decine avviene lo stesso per la lettera nun, che vale cinquanta. In massekhet Shabbat[5], a ulteriore conferma di quanto stiamo dicendo, è detto che hen in greco significa uno. Tutta l’umanità è stata forgiata ad immagine divina, ma solo i figli di Israele sono considerati figli dell’Eterno. Nella preghiere festive ricordiamo che H. ha unito il Suo Nome grande e temibile nel nostro (weshimkhà ha-gadol weha-norà ‘alenu qarata), noi siamo il popolo di H. (‘am H.), così come diciamo che H. viene chiamato con il nostro nome (ushmenu qarata bishmakh), in quanto è D. di Israele (Eloqè Yisrael). Presso alcuni popoli il marito assume il nome della moglie, in altri luoghi avviene il contrario. Il nostro rapporto con H. viene spesso paragonato a quello fra marito e moglie, e l’affinità di coppia consiste nell’essere, ciascuno a modo proprio, unico. Il Midrash[6] attribuisce questo legame alla distinzione del popolo ebraico dagli altri popoli, rispetto a tutti gli aspetti rilevanti della vita, dalla semina, alla mietitura, dal modo di radersi a quello di contare i mesi.
Questa nostra diversità appartiene al nostro DNA, ed il diverso, come vediamo ogni giorno nella nostra società, non solamente nei confronti degli ebrei, viene visto sempre con sospetto. Questo viene sottolineato anche da Haman nella meghillah di Ester[7]: “c’è un popolo (‘am echad) sparso e diviso fra i popoli”: l’elemento della separazione di Israele viene pronunciato, con atteggiamenti contrastanti, sia in ambito ebraico che fra gli altri popoli. Nel grembo di Rivqah nostra madre Ya’aqov ed Esav stavano già combattendo. I Maestri affermano che “è una halakhah conosciuta che Esav odia Ya’aqov”. Sempre più ebrei negli ultimi tempi cercano di pensare politically correct, piuttosto che cercare di pensare correttamente in termini assoluti. La nostra verità è la Torah, e il nostro modo di fare teshuvah, appena usciti da Kippur, deve essere ispirato dalla Torah. Nella quinta benedizione della ‘amidah chiediamo ad H. “facci tornare nostro padre alla tua Torah… e torneremo con una teshuvah completa davanti a te”.
Non è possibile diversamente. Il nostro destino è molto diverso da quello degli altri popoli: la nostra gioia non è la loro. Perché la Torah dice che uno straniero non può mangiare del qorban Pesach? Spiega il midrash[8] “il cuore conosce l’amarezza dell’animo, questi sono i figli di Israele, che erano in schiavitù in Egitto, e quando stavano per uscire ed il Signore decretò che facessero il qorban Pesach, vennero gli egiziani per mangiare con loro, ed il Signore disse Chas weshalom! Uno straniero non ne mangi!”. Ma allora, potremmo chiederci, non abbiamo nulla in comune con gli altri popoli? Il midrash[9] riporta la storia di un idolatra che interrogò R. Yochanan Ben Zakai sulle reciproche differenze di calendario, e, elencate le feste degli uni e degli altri, chiese “qual è il giorno in cui noi e voi ci rallegriamo? R. Yochanan rispose: il giorno in cui cade la pioggia, basandosi sull’accostamento dell’ultimo verso del salmo 65[10] “i campi sono coperti da greggi e le valli sono ammantate di raccolto; i campi stessi prorompono in lieti canti di gioia”, e l’apertura del salmo 66[11]: “Applaudite a D., o voi, abitanti tutti della terra”. Indipendentemente dalle sacrosante differenze culturali e religiose, abbiamo qualcosa che ci accomuna, e verso cui i nostri sforzi congiunti devono essere concentrati: la natura e il mondo che ci circonda. Quello deve essere l’impegno comune che unisce i popoli della terra.
[1] TB Chaghigah 3a.
[2] Bemidbar 23,9
[3] Devarim 33,28
[4] Shemot Rabbà 15,7.
[5] TB Shabbat 31b.
[6] Bemidbar rabbà 10,1
[7] Ester 1,8
[8] Shemot rabbà 19,1.
[9] Devarim Rabbà 7,7.
[10] Salmi 65,14.
[11] Salmi 66,1.