Come è noto il trattato di Avot si apre con una dettagliata descrizione della trasmissione della tradizione. I commentatori, considerando tale insegnamento assolutamente fondamentale e fondante, sollevano un’obiezione non da poco. Perché R. Yehudàh, che ha redatto la mishnàh, ha aspettato sino al trattato di Avot, nell’ordine Neziqin, per darci questa informazione? Vista la sua natura, non sarebbe stato meglio parlarne all’inizio dell’ordine zera’im, il primo della Mishnàh, ad introduzione di tutta l’opera e della letteratura rabbinica in generale?
R. Ovadiàh da Bertinoro[1] spiega che il trattato di Avot è differente dagli altri trattati della mishnàh. Difatti questi si interessano di mitzwot specifiche, mentre Avot dà degli insegnamenti di natura morale e sulle predisposizioni spirituali. Questo ambito nella cultura occidentale è stato prepotentemente sviluppato ed esistono numerosissime opere che affrontano i medesimi temi. Ma la grossa differenza è che questi scritti sono esclusivamente frutto dell’ingegno di questi pensatori, definendo il comportamento che ciascuno deve tenere nei confronti del prossimo. Possiamo aggiungere anche che da alcuni di questi sistemi di pensiero sono derivate alcune delle peggiori aberrazioni della storia umana, come d’altra parte determinare la validità di un certo sistema non è semplice, e pertanto abbiamo bisogno del soccorso della tradizione. Per questo il Pirqè Avot esordisce dicendo che Moshèh ha ricevuto la Toràh dal Sinai, per dirci che gli insegnamenti riportati non sono invenzioni dei chakhamim, ma anch’essi derivano dal Sinai. In questo modo la Mishnàh ci impedisce di credere che quella che abbiamo di fronte sia un’etica universale, poiché altri nei secoli hanno affrontato i medesimi temi, basando le loro affermazioni sull’investigazione razionale e sull’esperienza. Ogni aspetto della Toràh, anche questi che sembrano essere razionali, o almeno totalmente compatibili con la razionalità, è frutto della sapienza divina, a noi trasmessa sul Sinai, e solo tramite la Toràh, e non attraverso la filosofia possiamo operare il tiqqun ha-middot[2], come è scritto in massekhet Qiddushin “ho creato l’inclinazione al male e la Toràh come rimedio”. Il Ran nelle sue derashot[3] si stupisce dell’atteggiamento di Avraham avinu quando inviò Eli’ezer a cercare una moglie per Ytzchaq, volendo scongiurare l’eventualità che si sposasse con una donna cananea. Infatti disse ad Eli’ezer di recarsi a Charan, ma non è chiaro quale possa essere la differenza fra Kena’an e Charan. Sempre di idolatri si tratta! Il Ran risponde che c’è una differenza importante, perché vi sono due ambiti distinti, quello degli attributi (middot) e quello delle predisposizioni (de’ot). I primi non sono modificabili, mentre le altre lo sono. I Cananei avevano delle cattive middot, mentre gli abitanti di Charan, pur avendo delle cattive de’ot, avevano delle buone middot, e per questo Avraham dice ad Eli’ezer di recarsi a Charan per trovare moglie a Ytzchaq.
In Masshekhet Sanhedrin viene narrata la storia di R. Gamliel, che invitò sette maestri in una soffitta per effettuare l’ibbur shanàh, l’intercalazione dell’anno. Arrivato alla soffitta, R Gamliel si accorse che erano arrivati otto chakhamim, e non sette. R. Gamliel disse pertanto “chi è salito senza permesso, scenda”. Sentito ciò, Shemuel ha-qatan, il quale riferisce la ghemarà, era stato invitato, ammise di essere salito senza essere stato chiamato. Voleva infatti evitare che il vero colpevole fosse umiliato pubblicamente. La ghemarà riporta altri esempi analoghi, che vedono come protagonisti R. Chyia e R. Meir, che avevano appreso questa condotta da Shemuel ha-qatan, che a sua volta lo aveva appreso da Shechanyà ben Yechiel, che nel libro di Ezrà aveva affermato di avere sposato una donna non ebrea, sebbene non fosse così, per limitare la vergogna di quelli che lo avevano invece fatto. A sua volta Shechanyàh lo aveva imparato dalla discussione fra Yehoshua’ ed H. che rifiutò di rivelargli l’identità di ‘Achan, che si era appropriato del bottino di Gerico, nel libro di Yehoshua’, o in alternativa da H. che disse a Moshèh nella parashàh di Beshallach “fino a quando vi rifiuterete di osservare le mie mitzwot e le mie Torot?”. Quanto la ghemarà scrive, per quanto possa sembrare artificioso, riporta un comportamento individuale, come quello di modificare la verità per evitare un imbarazzo a qualcun altro, alla trasmissione diretta da Moshèh Rabbenu. R. Ytzchaq Shor arricchisce quanto ha scritto R. Ovadiàh da Bertinoro parlando del divieto “Bal tosif”, di aggiungere mitzwoth a quelle comandate dalla Toràh. Questa mitzwàh, come è noto, compare in due passi distinti nella Toràh, una volta nella parashàh di Waetchanan “non aggiungerete né toglierete alla cosa che vi comando”, e una volta nella parashàh di Reèh “non aggiungerai ad essa né toglierai”. Confrontando i due versi non si può non notare che uno è espresso al singolare e l’altro al plurale. Da questa differenza il Rambam[4] individua due aspetti distinti della mitzwàh, uno rivolto al singolo individuo, che non potrà ad esempio agitare cinque specie del lulav, l’altro indirizzato al Bet Din, che non potrà aggiungere ex novo delle mitzwot, a meno che ciò non sia espressamente segnalato. R. Yzchaq Shor fornisce però una spiegazione differente: mentre la formulazione al plurale vieta l’aggiunta di mitzwoth a quelle prescritte, quella al singolare regola il nostro approccio a livello individuale rispetto al servizio di H. Molti infatti possono essere gli stimoli che ci conducono alla pratica delle mitzwot, fra cui quello dell’adesione razionale o quello di volere imitare le altre nazioni. Il motivo principale per cui dobbiamo mettere in pratica le mitzwot è che ce le ha comandate H., e questo riguarda anche l’ambito etico, che, al pari delle mitzwot “religiose” discende completamente dal Sinai, e non dal nostro intelletto e dalla nostra ragione. Rashì aprendo il suo commento alla Toràh pone la famosa domanda sul perché la Toràh esordisca con la creazione del mondo, e non con il cap. 12 del libro di Shemot, in cui viene data la prima mitzwàh al popolo d’Israele. Il Netziv nell’introduzione al libro di Bereshit risponde a questa domanda scrivendo che è indispensabile riportare le storie dei patriarchi, perché da esse possiamo apprendere la rettitudine. Netivot Shalom scrive che non possiamo pensare che nella Toràh vi siano delle semplici narrazioni, perché la Toràh è in tutto e per tutto insegnamento (Horahàh), ed anzi questa dimensione precede la Toràh (come è scritto nel pirqè Avot “derech eretz qademàh laToràh”). E’ scritto ad esempio che “la gelosia, il desiderio e l’onore conducono l’uomo fuori dal mondo[5]”, e questo concetto è esplicitato dalla prima parte del libro di Bereshit per mezzo delle storie di Caino, del dor ha-mabbul, la generazione del diluvio, e del dor ha-pelagàh, la generazione della torre di Bavel, che difettavano in questi tre ambiti. Dalle narrazioni della Toràh possiamo pertanto ricavare degli insegnamenti di natura etica, che ritroviamo poi abbondantemente rielaborati, pur non perdendo il legame con la loro radice, nella tradizione rabbinica.
[1] Commento ad Avot 1,1.
[2] Chidà, Zeroa’ Yamin ad Avot 1,1.
[3] Derashot ha-Ran 5.
[4] Hilkhot Mamrim 2,9.
[5] Avot 4.