Nella parashàh di Emor ampio spazio è dedicato ai mo’adim, primo fra tutti lo Shabbat. Generalmente siamo portati a definire lo Shabbat come un giorno di riposo. Tuttavia il termine più appropriato per rendere il senso di questa parola è “cessazione”. Questa stessa radice verbale viene usata dalla Toràh quando ci viene ordinato di eliminare il chametz la vigilia di Pesach, o quando la manna smise di cadere. Alla luce di queste analogie possiamo dire che lo shabbat è un giorno di cessazione, e non di riposo. Non si tratta solo di semantica.
Lo Shabbat è il weekend ebraico o qualcosa di più? La cessazione non è riposo, ma una tregua, una tregua dalle preoccupazioni che caratterizzano il resto della settimana. “Sei giorni lavorerai e compierai tutto il tuo lavoro”. Ai nostri occhi, quando arriva lo Shabbat, tutti i nostri lavori devono essere considerati come completati. Siamo liberati dal peso di guadagnarci da vivere, per dedicarci allo studio della Toràh. Lo Shabbat non è un giorno di riposo dal lavoro, che è sotto certi aspetti parte integrante del lavoro stesso. L’operaio ha un giorno di riposo, per rigenerarsi e tornare al lavoro ristorato. Il suo riposo è un mezzo, mentre lo Shabbat è un fine.
E’ più simile piuttosto all’insegnante, che, terminata la lezione, dà allo studente del tempo per riflettere su quanto detto, e questa non è una preparazione alla lezione successiva o un momento di stacco, ma il vero e proprio cuore della lezione. Il Talmud Yerushalmi afferma che “gli shabbatot e gli Yamim Tovim sono stati dati solo per lo studio della Toràh”. Siamo liberati dalla mondanità per dedicarci alla qedushàh. La domanda è però: di Shabbat usiamo o perdiamo il nostro tempo? Passiamo il tempo a chiacchierare oppure a cantare le zemirot dello Shabbat e a parlare di Toràh? Nella parashàh di Bereshit Rashì spiega che attraverso il riposo di H. venne introdotta una nuova creazione, la menuchàh. Qadosh Barukh Hù dandoci lo Shabbat ci ha fatto un grande regalo. Cerchiamo quindi di sfruttarlo al meglio.