אלה מועדי ה’ מקראי קדש אשר תקראו אותם במועדם
Al centro della Parashah odierna vi sono le prescrizioni sulle feste. “Queste sono le ricorrenze di H., proclamazioni sacre, che proclamerete a loro tempo” (Wayqrà 23,4). Il verbo tiqreù ha in ebraico diversi significati. Proclamare significa, nell’interpretazione dei nostri Maestri, che il Sanhedrin di Yerushalaim aveva fra i suoi compiti quello di stabilire di volta in volta i mesi dell’anno e le date delle feste e poi di annunciarle. H. affida all’uomo l’autorità di fissare le “ricorrenze di H.” stesso! Ma tiqreù ha anche il senso di “leggete”.
Da qui impariamo che il modo corretto di osservare lo Shabbat e le feste consiste nel “leggere”. Che cosa? Il Sefer Torah, naturalmente. E’ Mitzwah particolare nei giorni festivi venire al Bet ha-Kenesset in tempo per assistere alla Qeriat ha-Torah. La Qeriat ha-Torah informa di sé tutta quanta la giornata festiva. Su di essa verte la Derashah, intorno a essa sono incentrate lezioni e Divrè Torah, in Comunità come intorno alla propria tavola. Le miqraè qodesh, “proclamazioni sacre”, diventano “letture sacre”. In ogni caso, è la Parola che le consacra. Ma non tutte le parole sono sacre.
Al centro del tema delle feste si parla della Sefirat ha-‘Omer, il periodo dell’anno nel quale proprio ora ci troviamo. עומר ‘Omer, che comincia per ‘ayin, contiene a sua volta un gioco di parole con אומר Omer di prima alef che significa invece… “detto, Parola”. Spiega il No’am Elimelekh che uno dei compiti di queste settimane di preparazione al dono della Torah sul Monte Sinai è purificare le nostre parole. Attenzione: non solo la leshon ha-rà’! Le nostre conversazioni, infatti, sono piene di devarim betelim, parole vane: non tali da suscitare una vera e propria proibizione, semplicemente inutili, improduttive. Che cosa ne dobbiamo fare? Tagliarle. Proprio come si faceva con la mietitura del ’Omer di orzo che si offriva nel Bet ha-Miqdash il secondo giorno di Pessach e che dà il suo nome a tutto questo periodo. Mietitura si dice in ebraico qatzir, dalla stessa radice dell’aggettivo qatzar che significa “corto”. Una volta accorciati i devarim betelim, avremo più tempo per parlare di Torah.
E’ a questo punto inevitabile pensare che possa esserci un gioco allusivo anche fra la parola iniziale che dà il titolo alla Parashah odierna, Emòr e il tema dell’Omer che campeggia al centro di essa. Nel primo versetto della Parashah il verbo amar “dire” appare per ben tre volte, di cui due in forma imperativa.
ויאמר ה’ אל משה אמר אל הכהנים בני אהרן ואמרת אלהם לנפש לא יטמא בעמיו
“H. disse a Moshe: Di’ ai Kohanim figli di Aharon e dirai loro: nessuno si renda impuro per contatto con una salma nel suo popolo” (Wayqrà 21,1). “Di’” e poi “dirai”: che ragione c’è di ripetere la stessa ingiunzione due volte? Se ne accorge naturalmente Rashì, il quale ne trae un insegnamento straordinariamente utile ed efficace. La doppia ingiunzione ci viene a insegnare che il divieto di venire a contatto con salme non interessa solo i Kohanim adulti. Essi hanno il dovere di estenderlo anche ai loro bambini. Il rischio è che un Kohen padre possa pensare che non ci sia alcuna necessità di trattenere i propri figli minori proprio perché la loro età li esenta dalle Mitzwòt in generale. La Torah ci dice che questo ragionamento non è valido. Si deve intervenire subito e educare i propri bambini alle Mitzwòt fin da piccoli. La questione non è infatti limitata ai Kohanim sulle Mitzwòt che li riguardano specificamente. Il Ben Ish Chay di Baghdad proprio questa settimana (anno II) tratta dei cibi proibiti e aggiunge che abbiamo il dovere di trattenere da essi i nostri bambini piccoli: una Mitzwah per tutto Israel! Dirò ancora di più: ciò che vale per i divieti, vale anche per gli obblighi.
E’ un luogo comune abbastanza generalizzato fra i cosiddetti benpensanti pensare di potere lasciare la libertà di scelta del comportamento religioso ai propri figli una volta che abbiano raggiunto l’età di intendere e di volere. E’ un’ipocrisia improduttiva, ma soprattutto non è più una libertà. Se il ragazzo o la ragazza non vengono resi edotti fin da piccoli dell’esistenza di certe regole di comportamento e quindi non sono posti nella condizione di poterle conoscere e apprezzare con un minimo di profondità, difficilmente saranno liberi di scegliere una volta che crescano. Ecco perché l’educazione ebraica non solo alla teoria, ma anche e soprattutto alla pratica religiosa è un dovere non negoziabile.
Nei Pirqè Avot di questa mattina R. Dossà ben Harkinas ci richiama a sua volta a questi temi.
שנה של שחרית ויין של צהריים ושיחת הילדים וישיבת בתי כנסיות של עמי הארץ מוציאין את האדם מן העולם
“Il sonno all’ora di Shachrit, il vino del mezzogiorno, la conversazione dei bambini e la frequentazione dei luoghi di ritrovo degli ignoranti trascinano l’uomo fuori dal mondo” (3,14). Un’interpretazione affascinante sostiene che questa Mishnah allude alle tre fasi della vita. Il mattino della vita è la nostra infanzia. Essa non deve essere trascorsa a “dormire”, come se l’immaturità non ci concedesse nient’altro da fare. Il messaggio è chiaro: questa è la fase di formazione dell’individuo in cui egli deve essere abituato ad assumersi le proprie responsabilità. Come dicono i Mishlè:
חנך לנער על פי דרכו גם כי יזקין לא יסור ממנה
“Educa il ragazzo secondo la sua giusta via: neppure da vecchio si dipartirà da essa” (22,6).
La terza fase è quella della maturità, in cui siamo prima genitori e poi nonni: è denominata “conversazione dei bambini”. Non è scritto che la “conversazione con i bambini” è da biasimare. Tutt’altro. Si parla invece di guardarsi dalla “conversazione dei bambini”, cioè dagli argomenti infantili. Scrive un commentatore: “L’uomo è tenuto a educare il proprio bambino alle Mitzwòt e guidarlo nelle vie di H. distogliendolo dalle conversazioni vane e dal turpiloquio che è tipico di quell’età. Le conseguenze di questa trasgressioni da parte dei figli si riversano sui genitori”.
Come affrontare in pratica la questione? Determinante è a questo punto la “seconda fase”, chiamata “vino del mezzogiorno”. E’ la fase intermedia, in cui i giovani sono ormai cresciuti ma non hanno ancora una famiglia propria. Il vino è qui metafora di tutte le distrazioni che possono avere facile effetto in questa fascia d’età. Saperle guidare senza esserne guidati è il segreto di un’impostazione felice della propria esistenza futura. E’ l’ultima parte della Mishnah, in realtà, a gettare luce su tutto il resto. I luoghi di ritrovo da evitare sono chiamati Battè Kenessiyot shel ‘Ammè ha-Haaretz. Ci rimandano per contrasto ai veri Battè Kenessiyot, quelli in cui si dice Tefillah e si studia Torah. E’ compito dei genitori educare i figli. In che modo? Anzitutto mediante l’esempio. E’ difficile pretendere che i figli si comportino più virtuosamente dei propri padri. Se vogliamo che i nostri figli vengano al Bet ha-Kenesset, rechiamoci in esso regolarmente noi per primi. In tempo per la lettura della Torah. Di mattina presto!