I miracoli che H. ha compiuto durante l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto avevano vari scopi. Fra questi di certo c’era quello di dimostrare al popolo l’esistenza di H. e il suo potere. Da Pesach derivano molti aspetti focali della nostra fede. Lo Zohar definisce la matzàh “il cibo della fede”. Perché? Secondo il senso letterale della Toràh è abbastanza semplice: il popolo ebraico era uscito dall’Egitto senza fare delle provviste per il viaggio, come ricorderà il profeta Geremia (2,2), mostrando di confidare in H.
Aggiunge Benè Yssachar (Zvi Elimelech Shapira di Dinov) che il processo di lievitazione è indipendente da chi prepara il pane. Anche se il panettiere fa dell’altro, il pane continua a lievitare. Nella preparazione delle matzot, chi le fa segue tutte le fasi del processo. Questo rappresenta la nostra fede nell’esistenza della provvidenza divina.
Di Shabbat e di Mo’ed non abbiamo la mitzwàh dei tefillin come testimonianza della nostra fede. Il Meor washemesh scrive che la matzàh al pari dei tefillin è da considerarsi un ot (segno), e questo spiega perché queste due mitzwoth, matzàh e tefillin, siano accostate nella parashàh di Bò. La Toràh infatti dice (Shemot 13,6) “per sette giorni mangerai pane azzimo” e poco dopo (13,9) “e saranno come segno sul tuo braccio e come ricordo fra i tuoi occhi, affinché la Toràh del Signore sia nella tua bocca”. Attraverso la matzàh accogliamo il giogo del regno divino nella nostra bocca.
In questo processo si prescinde dalla Toràh, della quale ci occuperemo a Shavu’ot. Qedushat ha-Levì sottolinea il contrasto fra queste due festività: di Pesach non possiamo possedere alcun genere di chametz, mentre a Shavu’ot, unica occasione nell’anno, viene portato un sacrificio composto da chametz. I due pani che vengono portati a Shavu’ot sono considerati dal Talmud un sacrificio più “elegante” rispetto al sacrificio dell”omer, che al contrario della quasi totalità delle menachot deriva dall’orzo e non dal grano. L’orzo viene per lo più usato per nutrire gli animali. Il grano è usato principalmente per gli uomini. La fede precede la conoscenza, a tal punto che il Ramban ritiene che nella Toràh non vi sia un comandamento di credere in H., perché la fede è la radice delle mitzwot, e senza fede non ha senso parlare di mitzwot.
Le differenze fra Pesach e Shavu’ot derivano dalle diverse prospettive di queste due festività. Nessuno di noi può comprendere a pieno la divinità in tutti i suoi aspetti. Il nostro livello di comprensione viene paragonato a quello degli animali. La matzàh rappresenta la semplicità, il chametz la complessità. Quando un bambino inizia mangiare pane si lega a suo padre, come dicono i chakhamim (Berakhot 40a): “un poppante non sa chiamare papà e mamma sin quando non ha assaggiato il sapore del grano”. Quando il bambino chiama per la prima volta mamma e papà non ha idea di cosa vogliano dire questi termini e cosa implichino, ma li pronuncia perché si è creato un legame a livello interiore con i genitori. Attraverso la matzàh, allo stesso modo, l’uomo si lega a suo padre che è in cielo, pur non raggiungendolo intellettualmente. Questo può anche spiegare una halakhàh singolare del Rambam (Hilkhot chametz umatzàh 6,10): “un bambino che può mangiare pane, lo si educa alle mitzwoth e gli si fa mangiare il volume di un’oliva di matzàh”. Questa regola è quantomeno strana, perché, senza entrare nei particolari, l’obbligo di educare i bambini alla pratica delle mitzwot inizia ben dopo, da quando il bambino ha la comprensione intellettuale di chi sia il destinatario delle azioni che compie! Ma qui, come abbiamo detto, la sfera intellettuale non c’entra. La fede è al di sopra, o al di sotto, del nostro intelletto, o più semplicemente è qualcosa di diverso, che prescinde completamente dall’intelletto, e questo è ben rappresentato dalla sottigliezza della matzàh. La nostra intelligenza deve essere messa al servizio dello studio della Toràh. La sofisticatezza non è però necessariamente indispensabile per la nostra fede. Rav Yosef Ya’vetz, più conosciuto come Chasid Ya’vetz, che fu fra gli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492, ha scritto che la percentuale degli ebrei che si convertirono al cristianesimo per aver salva la vita fu molto più alta fra coloro che avevano delle nozioni di filosofia rispetto alle persone più modeste, che avevano una fede più semplice, e trovarono il coraggio di sacrificare la propria vita. Rav Kuk dice che nell’anima di ciascuno di noi, anche di quelli che si dichiarano non credenti, o che non sanno dire Shemà Israel, c’è una luce che li porta verso H., sino ad accettare l’estremo sacrificio. Ma allora come sarà possibile far progredire la nostra fede? Proprio attraverso la Toràh, che secondo la nostra tradizione è una descrizione della divinità. Moshèh, che ha ricevuto la Toràh, è colui che ha potuto intravedere l’immagine divina (Bemidbar 12,8). Il modo migliore per sviluppare l’amore per H. è lo studio della Toràh. Avendo un approccio sofisticato alla Toràh, arriveremo a comprendere più compiutamente la divinità, e in questo modo la nostra fede risulterà migliorata.
Pesach Kasher wesameach a tutti!