Il giorno in cui Achashveròsh ripudiò Vashtì, racconta il Talmud (Meghillah 12b), era Shabbat. I Chakhamim sottolineano la differenza fra il banchetto (se’udah) di Shabbat che noi Ebrei osserviamo tutte le settimane e il banchetto dei Persiani che fece da teatro allo scontro fra il re e la moglie. “Noi ebrei mangiamo e beviamo, ma esordiamo con parole di Torah e di lode al S.B., mentre gli altri mangiano e bevono anch’essi. Tuttavia esordiscono con discorsi vacui. Così accadde anche al banchetto di quell’empio”. Presero a far battute sul fascino femminile e il risultato fu quello che tutti conosciamo.
Diverso è lo spirito del banchetto fra noi ebrei. Sentenziava R. Shim’on nei Pirqè Avot (3,2): “Tre che abbiano mangiato intorno alla stessa tavola e vi abbiano pronunciato parole di Torah è come se avessero mangiato alla mensa dell’Onnipresente”. Il cibo non può ridursi ad una semplice occasione di sollazzo, soprattutto nei giorni festivi, allorché abbiamo più tempo per dedicarci all’essenza stessa della nostra umanità. E’ tradizione antichissima del nostro popolo dedicare il tempo trascorso intorno alla tavola dello Shabbat a parole di Torah. Inoltre si cantano appositi inni in onore dello Shabbat, detti zemirot o pizmonim. E’ a uno di essi che dedicheremo l’intervento odierno.
Sotto il Califfato di Abd-el-Rachman III (sec. X) fiorì a Cordova, allora capitale della Spagna, una vera e propria poesia ebraica di corte. Il grande animatore della vita culturale della Comunità fu Chasday Ibn Shaprut, alto diplomatico al servizio del Califfo e protettore degli ebrei. I due protagonisti di questa fioritura furono soprattutto i grammatici e poeti Menachem Ibn Saruq e Dunash Ibn Labrat. La competizione fra loro non tardò a manifestarsi. Menachem cadde in disgrazia e fu incarcerato. Sembra che non siano estranee a questa situazione le aspre critiche che Dunash gli aveva mosso in una disputa sulla lingua del Talmud, che costarono a Menachem il sospetto di aver aderito alla setta dei Caraiti: coloro che negavano la Torah orale. Sarà appunto Dunash Ibn Labrat ad affermarsi come innovatore della poesia ebraica secondo il modello arabo allora dominante.
Dunash Ibn Labrat, vissuto a Baghdad e poi a Cordova fra il 920 e il 990 era nipote e discepolo del grande filosofo Sa’adyah Gaon. La sua fama raggiunse presto il mondo askenazita, al punto che Rashì lo cita non di rado nel suo commento come fonte di insegnamenti grammaticali. La sua produzione poetica fu accolta con grande entusiasmo e fece affluire da Dunash molti discepoli desiderosi di imparare le nuove forme, particolarmente il metro quantitativo, che hanno permesso alla poesia ebraica di raggiungere un altissimo livello. L’inno per il quale Dunash Ibn Labrat è più noto è il Deròr Yiqrà. “Il canto –scrive Rav Bahbout nella sua raccolta di Zemirot “I canti dello Shabbat” (1996)- è una preghiera a D. affinché protegga Israele, distrugga coloro che lo opprimono e porti la redenzione”. Solo la prima e l’ultima strofa contengono un riferimento esplicito allo Shabbat: qualcuno ha pensato per l’ultima strofa ad un’interpolazione con un altro inno di Dunash dallo stesso metro: Deleh Shovàv minnì pachat, che però dello Shabbat non parla affatto a differenza del nostro. Deròr yiqrà (=proclamerà la libertà) richiama un’espressione adoperata nel Tanakh per il Yovel che allude alla liberazione degli schiavi. E’ evidente che il concetto è qui trasposto sullo Shabbat. Di Shabbat il servo è libero esattamente come il suo padrone. Commentano i nostri Maestri che il pane tiene fisicamente vivo l’uomo affamato, ma il riposo fa rivivere spiritualmente il servo affaticato. “Mi ricordo –scrive Aryeh Kaplan- di aver passato uno Shabbat con un povero operaio a Williamsburg. Era un uomo semplice ma devoto, che non possedeva molto in termini di beni materiali. Vedendo il suo appartamento piccolo e desolato, lo si sarebbe compatito ma, al tavolo dello Shabbat, stava seduto come un re…”.
Nell’inno il messaggio di libertà si trasfonde dal piano individuale a quello collettivo della nazione. “Pianta la nobile vite nella mia vigna” (cfr. Yesha’yahu 5,2). La Terra d’Israele viene paragonata a una Vigna, mentre Israele è uno dei suoi viticci che, quando viene piantato nella sua Vigna, dà buoni frutti. Si prega quindi D. di piantare Israele nuovamente nella sua Terra in modo che possa mettervi radici e non essere più esiliato. La più significativa è certamente la strofa centrale. “Pesta l’uva nel paese di Botzrah e anche in quello di Babele l’orgogliosa. Schiaccia i miei nemici con ira ardente, ascolta il mio grido quando chiamo” (trad. Avisar). Si cfr. Yesha’yahu 63,1-3, in cui il profeta paragona la punizione divina alla pigiatura dell’uva. Botzrah è la capitale di Edom (cfr. Bereshit, 36,33), che il Midrash identifica con Roma. Una prima lettura di questa strofa identifica Roma e la Babilonia con i distruttori dei due Battè Miqdash e riporterebbe il testo nel solco della storiografia ebraica tradizionale. Ma è verosimile anche una seconda lettura, che ci riporta al contesto politico in cui visse il poeta: Roma allude al cristianesimo e la Babilonia all’Islam. Sulla scia di un conflitto plurisecolare, cominciato all’epoca di Carlo Martello, Bavèl asher gaverah (lett. “la Babilonia che ha prevalso”) è un riferimento alla sua città natale, Baghdad, allo stesso Califfato di Cordova e alla dominazione dei Musulmani nella Spagna del suo tempo. Riferimenti incrociati del genere sono comunissimi in tutta la poesia ebraica del tempo. Il Machazor Vitrì, attribuito alla scuola di Rashì nella Francia settentrionale riporta il Deròr Yiqrà con una strofa in più:
אדום עקר, אשר עיקר, עדי אובד נטע כנה | וגם הקדר, פני קדר, אשר אותי מאד עינה “Sradica Edom che ha reso perennemente invalido il virgulto della pianticella (Israele) e anche abbruna il volto di Qedar (Ishma’el) che molto mi ha afflitto”. E’ difficile determinare il motivo per cui questa strofa è assente dalle edizioni più recenti. Potrebbe trattarsi di un’aggiunta spuria posteriore. Ma potrebbe anche trattarsi di un componimento originale che a seguito della Reconquista spagnola da parte della Chiesa sarà stato ritenuto inopportuno, a causa del suo esplicito riferimento allo sradicamento di Edom. Ma non abbiamo sufficienti strumenti per ricostruire il percorso storico di una zemirah di Shabbat che ancora oggi è fra le più conosciute e cantate.