Fra le fonti principali del Tur e del Bet Yosef c’è un libro di Halakhàh italiano del XIII sec., lo Shibolè ha-leqet , di R. Zidqiàh ben Avraham ha-rofèh. Il libro si occupa principalmente di halakhot che poi confluiranno nella prima parte dello Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim, e comprende halakhot, spiegazioni di minhaghim e tefillot. All’interno del testo è presente un commento alla haggadàh di Pesach, stampato in numerose edizioni. Le sue fonti principali sono le Teshuvot dei Gheonim, materiale derivante dal Bet ha-midrash di Rashì e le decisioni di Rabbì Yesha’iàh di Trani (il Rid, la maggiore autorità rabbinica in Italia prima di lui). Oltre a fonti antiche si basa anche sulle parole dei suoi maestri e contemporanei, fra cui il fratello, R. Biniamin, il cugino R. Yehudàh ben Biniamin e suo fratello R. Zidqiàh ben Biniamin, e R. Avigdor ha-Kohen.
Il suo maestro era Meir ben Moshèh. L’influenza dello Shibolè ha-leqet sulla halakhàh italiana è enorme, e molti degli usi degli italiani che contrastano con quanto poi stabilirà lo Shulkhan ‘Arukh derivano da lui. Lo Shibolè ha-leqet presenta moltissime similitudini con il Tania Rabbatì, che potrebbe esserne il riassunto, o derivare da una fonte comune. Il libro è composto da 372 “spighe” (Shibolim), la ghematrià di Sheva’, che richiama il verso in Bereshit (41,26) in cui Yosef spiega i sogni del Faraone. Il libro è stato stampato 4 volte, la prima nel 1546 a Venezia, senza che venisse indicato il nome dell’autore, e l’ultima nel 1887 a Vilna, in un’edizione curata da Shlomò Buber, il nonno di Martin Buber, nella quale furono incluse numerose altre halakhot su argomenti di Yorèh de’àh, che non comparivano nelle edizioni precedenti. Nel 1966 è uscita un’edizione critica del prof. Rav Shemuel Kalman Mirsky. Numerose halakhot su argomenti delle altre tre parti dello Shulkhan ‘Arukh non sono state incluse nell’edizione di Buber, e nel 1988 Rav Simkhàh Chasidah ha pubblicato il primo volume della seconda parte dello Shibolè ha-leqet. Queste halakhot non erano tuttavia sconosciute ai Rabbanim italiani; difatti Shadal ne possedeva una copia, ed anche il Chidà accenna alla sua esistenza in “Shem ha-ghedolim”, dicendo che è composto da 172 capitoli. Il Chidà scrive di una Teshuvàh riportata che sarebbe stata scritta sotto dettatura dalla figlia di Rashì, quando questo stava per morire.
Lo Shibolè ha-leqet (cap. 185) è citato da molti poseqim (ad esempio Rav ‘Ovadiàh Yosef in Yabia’ Omer 7,57) per una halakhàh riguardante Chanukkàh, sull’accensione dei lumi nel Bet ha-kneset. Il Talmud non accenna a tutto ciò, ma già all’epoca dello Shibolè ha-leqet c’era già un uso consolidato in questo senso, come riportato anche nel Ba’al ha’itur (foglio 114,4), e quello doveva essere anche l’uso a Roma. Lo Shibolè ha-leqet scrive però di non capire il motivo di quest’uso. R. Yehudàh non le accendeva per non recitare le berakhot, e lo Shibolè ha-leqet considerava questo comportamento corretto, poiché ciascuno accende in casa propria, e pertanto non c’è necessità di accendere al Bet ha-kneset. L’unico caso in cui la cosa sarebbe ammissibile è qualora vi fossero dei forestieri, ma se non ci sono che necessità c’è? Forse tutto nasce dal fatto che il chazan ha-keneset viveva lì, ma ora che non vive più lì non c’è necessità di accendere. E così scrive il Sefer ha-Tania (cap. 35). Anche il Sefer ha-Manhig (cap. 148) riporta questa informazione, ma con un’aggiunta: bisogna accendere dove si vive, di modo tale da avere la mezuzàh a destra e la chanukiàh a sinistra, ed il Bet ha-kneset è esente dalla muzuzàh, pertanto non vi è necessità di accendere. Il Sefer ha-manhig giustifica comunque l’uso perché il Bet ha-kneset è un Miqdash me’at (piccolo Santuario), e l’accensione di Chanukkàh ricorda quanto avvenne nel Santuario. R. David ben Levì di Narbona (commento a Massekhet Pesakhim, p. 438) scrive che quando viene fatta una Taqqanàh (decreto), anche quando decade il motivo per la quale questa era stata stabilita, questa non viene annullata.
Per esempio si recita il Qiddush al Bet ha-kneset anche se non ci sono forestieri, perché in ogni caso si ringrazia H. con grande risonanza, come è detto (Tehillim 68,27): “Bemaqhelot Barekhù Eloqim – nelle congregazioni benedite il Signore”. In questo caso non si tratta di Berakhot invano, perché vengono recitate per esperti e non, ed è simile alla accensione della Chanukiàh al Bet ha-kneset, dove le berakhot servono “a fare uscire d’obbligo coloro che non hanno una casa dove benedire”. Il Birkè Yosef (671,7) scrive di non preoccuparsi dell’opinione del Tania Rabbatì, perché tanti grandi rabbanim accendono con berakhàh al Bet ha-kneset e ripetono l’accensione in casa propria. Il Bet Yosef per la halakhàh non considera l’opinione dello Shibolè ha-leqet, e scrive (Bet Yosef, Orach Chayim, cap. 671) che si accende al Bet ha-kneset, per via dei forestieri e del pirsum ha-nes. Questo secondo motivo si basa su una teshuvàh del Rivash, per la quale al giorno d’oggi non possiamo fare la mitzwàh dell’accensione come prescritto, vale a dire mettendo la chanukiàh sulla porta di casa, in quanto siamo dominati dagli altri popoli, e non possiamo quindi fare adeguatamente pirsum ha-nes. L’Or Zarua’ a proposito si chiede perché non si accenda nei cortili quando il pericolo non sussiste, e quanto dice è rilevante al giorno d’oggi in Eretz Israel, dove, già prima che nascesse lo Stato, si accendeva pressoché ovunque, senza preoccuparsi degli altri! In moltissimi posti si usa accendere grosse chanukiot elettriche sui tetti degli edifici pubblici. Certamente non saranno utili per fare la mitzwàh secondo quanto prescritto dalla Halakhàh, ma non c’è pirsum ha-nes più grande di questo! (Shut Bet Mordechay 1,41).