Come accennavamo la scorsa settimana, le prime strofe dell’Igdal sono costituite da una serie di affermazioni sulla natura di H. Il Rambam considera una mitzwàh credere (o in altre opere, come ad esempio nella prima Halakhàh delle Hilkhot Yesodè ha-Toràh, sapere) nell’esistenza di un D. creatore., che c’è un ente, perfetto nella Sua essenza, che è la causa dell’esistenza di tutti gli enti. Questo principio è indicato dal primo comandamento “Io sono il Signore tuo D….” Rambam afferma che all’infuori della dimensione dell’esistenza di H. non sarebbe possibile l’esistenza di alcun ente.
Il rapporto di H. con gli enti non è paragonabile a quello di un artigiano e la sua creazione, la quale può sussistere anche al di fuori della sussistenza dell’artigiano. Se l’artigiano muore, certamente il vaso da lui creato non morirà assieme a lui. L’esistenza di H. è invece la condizione dell’esistenza di tutti gli enti, mentre la Sua esistenza è assolutamente indipendente dalla loro esistenza. Nel Morèh Nevukhim (1,69), tornando sul concetto, Rambam definisce H. “chay ha-‘olam”, il Vivente del mondo, nel senso che è la vita del mondo, perché all’infuori di Lui il mondo non esisterebbe. La concezione di Rambam si distanzia pertanto da quella dei pensatori che ritengono che la divinità abbia un’esistenza del tutto separata. Attraverso le parole en ‘et el metziutò il poeta introduce il tema dell’eternità di H., che verrà poi sviluppato ulteriormente nella quarta strofa. Il tempo è una dimensione propria delle creature, che H. trascende.
Il secondo principio è quello dell’unità di H. L’unità divina non è paragonabile a quella di un singolo genere, di una singola specie, o di un singolo individuo, che sono composti ciascuno da numerosissime unità. H. è invece unico nella sua unità, e non esiste un’unità paragonabile alla Sua in alcun modo. Il principio è indicato nel verso Shemà’ Israel. Qualsiasi ente, sia esso fisico o spirituale, è composto da due differenti entità, nel linguaggio aristotelico la sostanza e gli accidenti, ad esempio il movimento o la quiete, la misura o la posizione all’interno dello spazio (ma vi sono numerose altre categorie). Per questo ciò che noi consideriamo come unico nel nostro orizzonte intellettuale, in realtà non lo è, e quindi, non avendo termine di paragone alcuno, l’unità divina rimane nascosta al nostro intelletto. Il Rambam nel Morèh Nevukhim insisterà sull’impossibilità da parte nostra di utilizzare degli attributi affermativi, per via della inconoscibilità di fondo di H., inserendosi in un filone, quello della teologia negativa, che successivamente fra i filosofi medievali, ebrei e non, avrà numerosi esponenti.
Il terzo principio è quello dell’incorporeità divina, al quale Rambam dedicherà grandissima attenzione nelle sue opere, in particolare nel Morèh Nevukhim, il quale, pur interessandosi di molte questioni, si confronta anzitutto e principalmente con il problema dei numerosi antropomorfismi presenti nella nostra tradizione scritta, che per lui, e per il credente in generale, evidentemente rappresentavano una grossa difficoltà. Per questo, nella prima parte del Morèh Nevukhim, il Rambam affronta tutti i testi biblici nei quali sono presenti espressioni antropomorfiche. Certamente non sarà possibile entrare nel dettaglio, ma in generale si può dire che “la Toràh parla il linguaggio degli uomini”, e non è possibile, né corretto, intendere queste espressioni in senso letterale. Questo principio è la diretta conseguenza di quello precedente: l’assoluta unicità comporta necessariamente la negazione della corporeità. Per questo non possiamo cogliere H. nella sua essenza. L’autore del piut parla qui di Qedushàh, che non dobbiamo intendere semplicemente come santità, ma secondo il senso originario del termine, che è quello di separatezza: per via della Sua unicità ed incorporeità D. trascende le nostre capacità di comprensione. Non è da escludere che vi sia un riferimento al Midrash, che spiegando il verso Qedoshim tyiù dice che “la Mia santità è al di sopra della vostra santità”.
La trascendenza divina si manifesta anche nel rapporto di D. con il mondo: nella filosofia medievale difatti c’era un’idea, quella del “mondo macroantropo”, che lo stesso Maimonide riporta nella seconda parte del Morèh Nevukhim. Questa concezione cela il pericolo di considerare D. come anima del mondo, ma il rapporto che c’è fra l’anima umana e il corpo è secondo Maimonide totalmente differente da quello fra D. e mondo. L’anima, o meglio l’anima razionale, la parte più elevata all’interno dell’animo umano, infatti è una potenza che si manifesta all’interno del corpo e non può prescindere da esso, mentre H. è totalmente staccato dalla creazione. Rambam ha con ogni probabilità voluto inserire questo principio, pur essendo una conseguenza necessaria di quello precedente, perché è più facilmente comprensibile dell’altro: pur non riuscendo a cogliere a pieno l’unità divina, sarà comunque possibile concepire la totale incorporeità.
Il quarto principio è quello dell’eternità di H., che esclude l’eternità di qualsiasi altro ente. Ci sono numerose prove nei nostri testi di questo fatto, che è uno dei principi fondamentali della Toràh, che il mondo è stato creato dal nulla. Spesso, pur ammettendone l’eternità, si cade nell’errore di calare H. nella temporalità, quando il tempo stesso fa parte di ciò che è stato creato. Se questo punto Rambam si confronta con la tradizione aristotelica, che partiva dall’idea di un mondo eterno, e affronta questo problema nel Morèh Nevukhim.
Il quinto principio consiste in un avvertimento contro la ‘Avodàh Zaràh: gli esseri creati sono tenuti a servire unicamente lui, e non tutte le creature che sono al di sotto di Lui, come le intelligenze angeliche, le stelle e i pianeti. Il Rambam nelle Hilkhot ‘Avodàh Zaràh (2,1) spiega che l’idolatria non nasce dal pensiero di negare H. L’idolatra, almeno originariamente, sa perfettamente che H. c’è, ma ritiene giusto servire oltre a Lui, anche quelle forze che si trovano fra di noi ed H., attribuendo loro uno status divino.