Ormai collocata fuori dall’acrostico dell’autore R. Shelomoh ha-Levy, l’ultima strofa del Lekhah Dodì ritorna sul tema iniziale dello Shabbat, la sposa. A sottolinearne il contenuto contribuisce l’aspetto formale: mentre la rima principale con la parola kallah (“sposa”) del ritornello riecheggia nelle strofe precedenti solo all’ultimo verso di ogni strofa, in “Boi be-shalom” ciascuno dei quattro versetti termina in –lah. “Vieni in pace, corona di suo marito, con gioia e letizia. In mezzo ai fedeli del popolo prezioso, vieni o sposa, vieni o sposa”. Il “marito” dello Shabbat è, come già si è detto, il popolo d’Israele. All’inizio esso era chiamato semplicemente dod = “amico” mentre ora, giunti al termine del Piyut, troviamo il termine ba’al = “marito”! Il versetto da cui l’espressione è tratta, eshet chayil ‘ateret ba’alah (“la donna di valore è corona di suo marito” – Mishlè 12,4) richiama l’ultimo capitolo dello stesso libro biblico, la lode della donna virtuosa (Eshet Chayil) che si reciterà poi a casa prima del Qiddush.
Il tema della pace è strettamente legato allo Shabbat. Il Ben Ish Chay di Baghdad (anno I, P. Nassò, introd.) nota che Shalom è l’ultima delle quindici parole della Birkat Kohanim, cui dovrebbero corrispondere altrettante falangi della mano. Senonché le falangi sono solo quattordici, perché il pollice ne ha due soltanto, invece di tre. Il Ben Ish Chay conclude che mentre le prime quattordici benedizioni sono “a portata di mano”, la pace no: essa va costantemente ricercata perché tende a sfuggirci, conformemente al versetto di un Salmo del Sabato mattina (34,15): baqqèsh shalom we-rodfehu, “cerca la pace e inseguila”. Come si collega tutto ciò con lo Shabbat? Egli commenta che quindici sono i pasti che consumiamo nell’arco della settimana. Ogni pasto è a sua volta collegato con una parola della Berakhah e quindi richiama una benedizione a se stante. Ciascun giorno ha due pasti, pranzo e cena, ma lo Shabbat è l’unico ad averne tre: agli altri pasti si aggiunge infatti la Se’udah Shelishit. Il terzo pasto sabbatico è quello che corrisponde alla Berakhah della pace. “Per questo ci diciamo Shabbat Shalom, perché se non avessimo avuto la Se’udah Shelishit dello Shabbat, non avremmo avuto alcun pasto che ci richiamasse la Berakhah della pace”. Lo Shabbat rappresenta il completamento (hishlim), dalla stessa radice della parola Shalom, pace.
Vi sono due Halakhot connesse con l’ultima strofa del Lekhah Dodì, che vale la pena di discutere brevemente. Una è collegata all’uso di volgersi verso occidente nel momento in cui la si canta. Anche questo Minhag risale ai Qabbalisti di Safed. Scrive infatti R. Itzchak Luria: “volgi il tuo volto verso il tramonto del sole” (Sha’ar ha-Kawwanot 64c), perché è ciò che segna l’arrivo dello Shabbat. Sebbene i Qabbalisti lo facessero dopo essere usciti nei campi, come abbiamo già spiegato, l’uso è rimasto di farlo anche nel Bet ha-Kenesset. Ci sono per questo almeno altri tre motivi: 1) l’uscio del Bet ha-Kenesset, attraverso il quale si immagina che lo Shabbat “entri”, è per lo più collocato nella parete opposta all’Aron ha-Qodesh, cioè a ovest; 2) gli Avelim (“persone in lutto”) che per tutta la settimana hanno detto Tefillah a casa, siedono all’inizio dello Shabbat vicino all’ingresso del Bet ha-Kenesset in attesa di essere riaccolti con parole di consolazione: per questo ci si volge verso di loro in un atto di Ghemilut Chassadim allorché comincia la giornata festiva (Sefer Ta’amè ha-Minhaghim u-Mqorè ha-Dinim, p. 127); 3) infine, ci si volge verso ovest perché nel Bet ha-Miqdash, in opposizione ai culti idolatrici che prescrivevano di prostrarsi al sole nascente (Mishnah Sukkah 5,4), la Shekhinah era appunto collocata a occidente: secondo questa lettura la “sposa” che qui si invoca non è pertanto lo Shabbat, bensì la Presenza Divina. Ma già sappiamo che le due figure si sovrappongono.
Dal momento che i nostri Battè ha-Kenesset sono rivolti verso Yerushalaim e dunque verso oriente che è la direzione opposta, si pone il problema di conciliare quest’uso con il divieto di volgere le spalle all’Aron ha-Qodesh e ai Sifrè Torah. In una lunga Teshuvah sull’argomento (Resp. Yechawweh Da’at 3,19) Rav ‘Ovadyah Yossef argomenta che il nostro caso non costituisce problema, dal momento che lo si fa le-shem Mitzwat Qabbalat Shabbat e riporta altre situazioni di Mitzwah in cui ciò viene di solito permesso: la Birkat Kohanim di cui ho appena parlato e il caso del Darshan che si volta verso il pubblico del Bet ha-Kenesset allorché pronuncia la sua Derashah sebbene in quel frangente egli dia le spalle all’Aron ha-Qodesh. Il ‘Arokh ha-Shulchan (a O.Ch. 282,2) arriva a dire che qui non solo non c’è infrazione perché non c’è Mitzwah più grande che parlare di Torah pubblicamente, ma in un certo senso il Darshan stesso incarna il Kevod ha-Torah mentre parla. In ogni caso, vi sono almeno altri due fattori per essere facilitanti sul fatto di volgere le spalle all’Aron ha-Qodesh: una volta che l’Aron ha-Qodesh è chiuso; e se anche fosse aperto, una volta che i Sifrè Torah sono collocati dentro l’Aron ha-Qodesh ad almeno dieci Tefachim (un metro) da terra fa dell’Aron ha-Qodesh stesso una Reshut Acheret, un dominio indipendente dal resto del Bet ha-Kenesset, cosa che risolve la questione.
La seconda Halakhah riguarda il momento esatto della Tefillah in cui si accoglie su di sé lo Shabbat, momento a partire dal quale non ci è più lecito eseguire Melakhot anche se avessimo recitato la Qabbalat Shabbat in anticipo rispetto al tramonto. Sebbene lo Shulchan ‘Arukh scriva che questo divieto decorre dal momento in cui si comincia a recitare il Salmo 92 Mizmor Shir le-Yom ha-Shabbat (O.Ch. 261,4), R. I. Luria (loc. cit.) ritiene invece che esso vada anticipato alla pronuncia delle ultime parole del Lekhah Dodì: boi kallah, boi kallah, boi kallah shabbat malketà. L’espressione è già riportata nella Ghemarà (Shabbat 119a). Seguendo i Qabbalisti, il Ben Ish Chay (anno II, P. Wayerà) sostiene che le parole boi kallah vadano ripetute per tre volte: le prime due a voce alta e la terza a voce bassa. Questo è verosimilmente il motivo per cui nelle Comunità di rito italiano (eccetto Roma e Alessandria, per quanto ne so, dove tutto viene recitato a voce alta) l’ultima espressione è stata nel tempo tralasciata. La ragione di questa tripartizione è spiegata dal Ben Ish Chay in vari modi. Lo Shabbat comporta una sua specificità che si estende alla sfera dell’azione (il divieto di eseguire Melakhot di cui si è parlato), a quella della parola (l’obbligo di recitare il Qiddush e la Havdalah), ma anche a quella del pensiero e dello spirito. Sotto questo aspetto lo Shabbat ci porta in dono la Neshamah Yeterah, l’anima addizionale, influendo dunque anche sulle nostre condizioni interiori. In corrispondenza dell’azione e della parola, che sono manifestazioni esteriori, boi kallah si recita due volte a voce alta. In concomitanza con la discesa della Neshamah Yeterah, che ci proietta in una dimensione diversa rispetto al resto della settimana anche sotto il profilo spirituale, lo si ripete per la terza volta a voce bassa. Per completezza aggiungeremo che anche la Neshamah Yeterah è costituita, secondo lo Zohar, da tre stadi e ciascuno fa il suo ingresso in noi il venerdì sera in altrettante parti distinte della Tefillah. La Nefesh (anima istintuale) entra mentre si recita boi be-shalom, appunto; la Ruach (anima intellettuale) si affaccia al Barekhù (da qui l’importanza di pregare in pubblico: altrimenti Barekhù non si dice), mentre la Neshamah propriamente detta (anima spirituale) è instillata in noi mentre recitiamo le parole u-fros ‘alenu sukkat shalom (“e stendi su di noi una capanna di pace”) nella Berakhah Hashkivenu. E’ per questo motivo che si usa alzarsi in piedi prima di pronunciare queste parole: per sottolineare come la componente più elevata dell’anima sabbatica coincida con l’avvento della pace. Shabbat Shalom.