La personalità di un individuo è notevolmente influenzata dai mesi che precedono la nascita: così anche per un popolo, le condizioni in cui esso si è formato lasciano delle tracce profonde nei caratteri della sua civiltà e della sua cultura. Per il popolo ebraico, si può individuare la funzione formativa “prenatale” nella lunga permanenza in Egitto e nella schiavitù cui fu sottoposto in questo suo primo esilio, cui seguì la liberazione che si realizzò in due tempi. Il primo, quando “il Signore saltò (pasàch) le case ebraiche”, risparmiando i primogeniti ebrei; il secondo, ad appena sette giorni dall’uscita dall’Egitto, quando Israele attraversò indenne il Mar Rosso, dove invece trovarono la morte gli Egiziani.
In che senso la storia ebraica è già rappresentata in nuce nell’esperienza determinante e formativa di Pesach e cos’è che la rende così diversa dalle altre storie?
A seconda dell’orizzonte e dei presupposti ideologici, la storia dell’uomo è stata interpretata in vario modo: ora secondo un rapporto di causa-effetto, ora secondo l’idealismo hegeliano, e poi marxista, di tesi-antitesi-sintesi. In una simile concezione della storia, l’uomo non è libero, ma in balia di forze che lo sovrastano: è un piccolo ingranaggio di una macchina che non è in grado di guidare e controllare. Secondo questa logica, una volta completato il suo ciclo e il suo ruolo storico, ogni popolo è destinato a scomparire: in effetti, questo è puntualmente accaduto a molte civiltà. Così, infatti, scriveva a Mark Twain in un suo scritto del settembre 1899 sull’Harpers Magazine, in tempi non sospetti, assai prima che gli avvenimenti del 20° secolo facessero della “questione ebraica” un problema centrale nella storia contemporanea.
“Gli egiziani, i Babilonesi, i Persiani, riempirono il mondo di suoni e di gloria, ma sono passati nel mondo dei sogni e sono scomparsi. I Greci e i Romani arrivarono dopo di essi, crearono un gran tumulto, ma non esistono più; altri popoli salirono sulle più alte vette, innalzarono le loro torce verso le più somme altezze, ma anche loro bruciarono presto, e si trovano ora nell’ombra del tramonto, o sono completamente scomparsi. Gli Ebrei hanno visto tutti, la loro storia è andata oltre la storia di tutti e sono ora quello che sono sempre stati, non presentano segni di decadenza e fenomeni di vecchiaia, né organi indeboliti o perdita di energia e di pensiero produttivo; ogni cosa muore, all’infuori dell’Ebreo; tutte le altre forze passano, e lui rimane.
Qual è il segreto della sua eternità?”
Pesach ci offre una risposta a questa domanda. Secondo la Torà, la realtà storica non è sempre interpretabile come una sequenza di eventi, direttamente dipendenti l’uno dall’altro: nella Natura, come nella Storia dell’uomo, sono possibili dei “salti” da uno stato all’altro; la storia di israele è piena di “salti” logici, il “salto” costituisce la natura e la sostanza più profonda della sua esistenza. La sopravvivenza del popolo ebraico nella Diaspora e addirittura la ricostituzione dell’indipendenza ebraica nella Diaspora e addirittura la ricostituzione dell’indipendenza ebraica nello Stato d’Israele, non sono facilmente interpretabili in termini “scientifici”. L’Egitto, assieme a molti altri potenti popoli dell’antichità, è ancora qui a portare la sua testimonianza: com’è potuto accadere che l’Angelo della morte “saltasse” le case ebraiche”?
Prima di uscire dall’Egitto, agli Ebrei viene richiesto di fare uno “strappo” con la cultura egiziana, di fare, a rischio della propria vita, “dei sacrifici che sono un abominio per gli Egiziani”. La rottura con a cultura circostante e l’affermazione di una propria autonomia culturale, sotto ogni cielo e a ogni latitudine, così come il mantenimento di un’unità nello spazio e nel tempo, costituiscono uno dei segreti della sopravvivenza del popolo ebraico, il salvacondotto per la sua vitalità. Israele sa da dove viene e sa verso dove va.
Ecco perché nel prepararsi ad uscire dall’Egitto, agli Ebrei viene ordinato di non bollire lentamente il capretto, ma di arrostire tutto intero, senza farlo prima a pezzi, perché nel momento dei grandi passaggi e delle grandi decisioni non c’è tempo per dividere e per dividersi, non c’è tempo per analisi dettagliate; ecco perché l’agnello doveva essere mangiato in tutta fretta (bechippazòn), così come in fretta si doveva fare il pane (‘uggòt matzòt), perché nel momento della grande scelta non c’è tempo per soffermarsi e per fare molte domande (lehitmamèha). E gli Ebrei ringraziano per essere passati indenni attraverso il mare della Storia, e perché non sono state loro applicate le comuni leggi storiche; ma consapevoli di questo privilegio, passati i primi due giorni di Pesach, gli ebrei “portano il lutto” per la morte degli Egiziani, astenendosi dal recitare per intero i salmi di lode dell’Hallel.
Ma la dialettica del “salto” è già presente nella preistoria di Israele, nella vita dei patriarchi. La storia ebraica può essere rappresentata come una scala, la scala di Giacobbe, dove per salire e scendere è necessario saltare da un gradino all’altro e alle cui estremità vi sono Abramo e Isacco, mentre Giacobbe-Isarele è il protagonista, che unisce le due estremità della scala.
Così, nel momento in cui il Signore dà a Mosè l’incarico di trarre fuori gli Ebrei dall’Egitto, si presenta come “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”: dal punto di vista del “Dio di Abramo”, gli eventi straordinari che accompagnano la liberazione dall’Egitto, così come molti altri momenti della storia ebraica, sono arte integrante della legge di Pesach, del salto; dal punto di vista del “Dio di Isacco”, questo “salto” non è una legge naturale della storia, non è spiegabile se non come qualcosa di meraviglioso, come la mano dell’Angelo che trattiene Abramo dal sacrificare il figlio Isacco; infine dal punto di vista del “Dio di Giacobbe”, le due concezioni si uniscono, in una visione dialettica della realtà, con l’uomo come libero protagonista, a fare da vera scala per unire terra e cielo.