Rosh haShanà 5780
Lo Shofar è simbolo di generosità, un invito a rompere la soffocante prigione dell’Io e a guardare davvero l’Altro. Ascoltarne il suono a Rosh haShanà non è solo una Mitzvà: è un messaggio di speranza, di pazienza, di ottimismo. Un appello a guardare il mondo intorno a noi in costante crescita, in un movimento che va dalla “strettezza alla larghezza”.
In un passo del Talmud (Ghittin 60b) la parola Shofar (nel suo equivalente aramaico Shippura), appare con un significato differente rispetto a quello cui siamo abituati. O meglio, su quale sia il suo esatto significato in quel contesto discutono i commentatori. Secondo alcuni (Rashì) si tratta del nostro corno di montone, il quale veniva suonato non solo per Rosh haShanah, ma addirittura ogni settimana per annunciare l’entrata dello Shabbat. Secondo Rav Sherirà Gaon seguito dalla maggioranza degli esegeti, invece, la parola ha qui un senso completamente diverso. Indicherebbe, immaginate un po’, la cassetta della Tzedaqah, in cui ogni famiglia della comunità ebraica babilonese di Pumbedita depositava la propria offerta destinata per lo più al mantenimento dei Maestri della Yeshivah. Questa cassetta veniva perciò custodita presso il Rosh Yeshivah stesso.
Che cosa c’entra lo Shofar nella sua accezione più comune con la cassetta della Tzedaqah? Una possibile spiegazione passa attraverso il testo della Mishnah nel cap. VI del trattato Sheqalim. Qui ci viene descritta un’altra speciale cassetta, custodita all’interno del Bet ha-Miqdash di Yerushalaim in ben tredici esemplari, in cui venivano raccolti i fondi per l’acquisto degli animali da sacrificare secondo le diverse tipologie. Anche queste cassette erano chiamate Shofarot. È evidente il passaggio simbolico. Si sa che dopo la distruzione del Santuario e l’esilio del nostro popolo, tutti i sacrifici furono sostituiti dallo studio della Torah. Ecco che le Accademie talmudiche di Sura e Pumbedita, a Babilonia, presero il posto ideale un tempo occupato dal Bet ha-Miqdash di Yerushalaim. Chi avrebbe contribuito economicamente al mantenimento dei Rashè Yeshivah acquisiva lo stesso merito come se avesse acquistato dei sacrifici da portare al Santuario.
Resta da chiarire il passaggio semantico della parola Shofar. Semplicemente, la cassetta del Bet ha-Miqdash era così chiamata perché aveva la forma del corno di montone, larga in basso e stretta in alto: di qui ad attribuire lo stesso nome anche alla cassetta della Tzedaqah di Pumbedita il passo era breve. Anche questo fatto, peraltro, suggerisce altre numerose considerazioni. In molte culture il corno è simbolo di abbondanza e di fertilità. Si pensi al significato che ha in italiano la parola cornucopia. Essa è in realtà una figura della mitologia greca: è spesso oggetto di raffigurazioni nelle antiche medaglie e si rinviene come ornamento architettonico. Nelle nostre fonti il caso è trattato diversamente per due aspetti. Anzitutto, lo Shofar non è simbolo di abbondanza, bensì di generosità.
Ricchezza e denaro? un banco di prova
La radice del motivo è probabilmente la medesima, ma vi è naturalmente una forte differenza di prospettiva. Quando si parla di abbondanza, il riferimento è per lo più ad una soddisfazione egoistica: ciò che conta è in ultima analisi il mio benessere personale. Quando si parla invece di generosità, è il benessere dell’altro che assurge al centro dell’attenzione. Le fonti ebraiche ci spingono sempre a superare il nostro ego, a considerare la ricchezza non come una facoltà esclusiva di chi la detiene, bensì come un bene da mettere costantemente al servizio altrui.
La seconda differenza consiste nel fatto che per i Greci e i Romani la cornucopia era strettamente associata alla fortuna. Un binomio indissolubile. Anche i nostri Maestri si interrogano sovente sul significato delle sperequazioni economiche esistenti nella società. Perché ci sono i ricchi e i poveri? Forse qualcosa non ha funzionato a dovere nella distribuzione della ricchezza alle origini dell’umanità? No. I Chakhamim sono piuttosto dell’idea che ci sia un disegno Divino: nulla è lasciato al caso e non tutti i mali sono venuti per nuocere. Il benessere materiale è un banco di prova non solo per chi non ce l’ha, ma anche per chi ce l’ha. Il Signore, Hakadosh BaruchHu, ci mette a disposizione la ricchezza per vedere come sappiamo adoperarla, se la mettiamo al servizio di coloro che sono meno fortunati di noi oppure no, se ci dimostriamo in grado, in altre parole, di creare una rete di solidarietà: “la ricchezza è il banco di prova dell’animo umano” (Mishlè 13,8).
Questo è in definitiva il senso stesso della Mitzwah dello Shofar, cui oggi adempiamo con tanto entusiasmo, e della sua simbologia. All’inizio dell’anno essa ci ricorda non solo i nostri doveri verso l’Altissimo, ma anche quelli verso il prossimo. Non dobbiamo chiuderci in noi stessi, ma al contrario la Torah ci invita ad “aprire la tua mano al tuo fratello, al povero e al bisognoso che è nel tuo paese” (Devarim 15,11).
In un periodo di crisi economica profonda come quello che stiamo vivendo, in cui molti di noi faticano a procurarsi da vivere in modo continuativo e dignitoso, è questo assai più di un generico appello alla sensibilità e alla disponibilità. È il richiamo ad un atto di Tzedaqah, che significa “giustizia”. Un termine che implica un impegno ben diverso dalla supina rassegnazione che potrebbe invece suggerirci la parola “fortuna”.
Contrariamente al pensiero di altri popoli, in un altro passo, il Talmud ci insegna che è il Signore a stabilire il budget annuale di ciascuno di noi e che la cosa avviene proprio a Rosh ha-Shanah e Yom Kippur (Betzah 16a). Questo tetto non viene fissato solo in funzione di quanto guadagniamo, ma anche di quanto dimostriamo di saper condividere con gli altri, come si è detto. La Tzedaqah è insieme alla Teshuvah (“pentimento”) e alla Tefillah (“preghiera”) uno dei requisiti per ottenere la Kapparah (“espiazione”) e superare felicemente il Giudizio Divino di questi giorni.
“Dal basso verso l’alto, come cresce in natura…”
Fin qui abbiamo affrontato il problema dalla parte del ba’al ha-bayit, ossia di colui che è chiamato a dare. Che dire invece al “anì”, colui che si aspetta di ricevere? Riguardo allo Shofar c’è una Halakhah che prescrive di emettere il suono soffiando nell’estremità stretta per fare uscire l’aria da quella larga. Se si impugnasse il corno all’inverso non si uscirebbe d’obbligo (O.Ch. 590,9)! Che ragione c’è di una prescrizione del genere, apparentemente intuitiva? Sappiamo che le Halakhot raramente sono fini a se stesse: in molti casi, come questo, vogliono indicarci un insegnamento. I nostri Maestri mettono in relazione questa Halakhah con un famoso versetto dei Tehillim (118,5): “È dalla ristrettezza che ho invocato Hashem, e Hashem mi ha risposto nella larghezza”. Il suono dello Shofar è un modo per invocare il Signore. È evidente l’antitesi fra “strettezza” e “larghezza”, nonché il fatto che nel versetto è la “strettezza” a precedere la “larghezza” e non viceversa.
La regola generale delle Mitzwòt legate ad elementi naturali è che devono essere osservate ke-derekh ghedilatan, tenendo l’oggetto dal basso verso l’alto come cresce in natura. Così sarà, fra due settimane, il caso dell’Etròg (“cedro”), che deve essere tenuto con il picciolo che lo attacca all’albero rivolto verso il basso. Qualcuno potrebbe obbiettare che anche con lo Shofar debba avvenire lo stesso: dal momento che è la parte larga ad essere attaccata alla testa dell’animale, che da lì si debba suonarlo. La realtà è diversa. Spiega un commentatore che nell’animale la crescita del corno comincia proprio dalla sua punta, è da lì che si sviluppa mano a mano, ed è da lì, dalla parte stretta, che si deve suonarlo. Non si comincia mai dalla larghezza. Lo Shofar ci dà un messaggio di speranza, di ottimismo e soprattutto di pazienza. Ci insegna a vedere il mondo intorno a noi in costante crescita, in un passaggio che va dalla strettezza alla larghezza. Guai se così non fosse. Ai momenti stretti seguiranno, a D-o piacendo, momenti larghi!
Che l’Altissimo gradisca quindi il nostro sforzo di fare Ritorno a Lui, ascolti le nostre preghiere e le nostre Teqi’ot, e per il merito della nostra generosità ci iscriva tutti quanti nel Libro del Sostentamento e dell’Alimentazione.