Torino, 15.6.2021
Riflettere sull’origine delle parole spesso ci fornisce degli spunti significativi. Il termine che in ebraico designa la crisi è mashber, che richiama a livello etimologico la radice sh-v-r, che significa rompere. La crisi è un momento di rottura. La situazione nella quale ci siamo trovati è senza dubbio un momento di rottura. Una grossa domanda sul post-COVID riguarda come affronteremo questo ritorno alla vita: saremo come prima, meglio o peggio? Faremo tesoro di quello che ci è successo? Saremo capaci di imparare dai nostri errori?
Il trovarsi all’uscita di una pestilenza non è una novità assoluta. Nei nostri testi spesso viene descritto questo momento. Rav Di Segni, domenica sera durante un incontro con il generale Figliuolo, ricordava le prime parole del capitolo 26 del libro dei Numeri, wahì acharè ha-maghefà, e fu, dopo la pestilenza. Non ci troviamo quindi di fronte ad una situazione nuova. Come lasciare alle spalle la crisi? Qual è l’atteggiamento corretto?
Nel secondo Libro dei Re (2Re 19,3) è detto: Giorno di angoscia, di castigo e d’ignominia è questo perché i figli giunsero al momento del parto (mashber), ma la partoriente è mancante di forze. In questo contesto il termine mashber viene ad indicare dove veniva messa la partoriente al momento del parto. Da questo versetto possiamo imparare almeno due cose: a) il modo corretto di rapportarsi alla crisi è quello di una nascita; b) per affrontare il parto è indispensabile avere forza. Questa fase ad esempio rappresenta il momento in cui è possibile ripensare le nostre società a vari livelli. Avere perso le proprie abitudini può rappresentare l’occasione per acquisirne delle altre, maggiormente virtuose. In realtà è vero pure il contrario: il non avere fatto per necessità determinate cose può fornire l’alibi per continuare a non farle, e non dobbiamo cadere in questa trappola. È importante avere forza e cercare di essere ottimisti. Nella Torà abbiamo letto ultimamente il brano degli esploratori, che portarono un report negativo sulla terra di Israele, conducendo il popolo alla disperazione e a rimanere per quarant’anni nel deserto. Secondo vari commentatori la loro colpa fondamentale era stata, al contrario di quanto Moshè aveva detto affidando loro l’incarico, quella di non avere forza e di avere un atteggiamento ottimistico.
Anche se l’emergenza non è ancora finita e il dolore e la sofferenza patiti siano stati notevoli, quanto si sta realizzando ha dell’incredibile: basterebbe pensare, appena un secolo fa, come è stata affrontata l’influenza spagnola e le conseguenze disastrose che ha comportato. In meno di un anno si è riusciti ad elaborare dei vaccini efficaci e a realizzare una campagna vaccinale efficiente, andando ben oltre le più rosee aspettative all’inizio della pandemia.
L’esperienza storica del popolo ebraico può senza dubbio fornire alcuni spunti su come superare i momenti di crisi, poiché suo malgrado il popolo ebraico ha affrontato delle situazioni che molti altri popoli non sarebbero stati in grado di superare. La distruzione del Tempio, le Crociate, la cacciata dalla Spagna e del Portogallo, i Pogrom e la Shoà, tutti questi rovesci epocali non hanno abbattuto il popolo ebraico, anzi hanno contribuito a dare vita a nuovi modelli, che in qualche modo si rifacevano a quelli precedenti, ma sotto altri punti di vista rappresentavano delle novità assolute.
Per esempio dall’esilio babilonese che seguì alla distruzione del primo Tempio nacque la sinagoga, mentre come risposta alla distruzione del secondo Tempio l’attenzione dei rabbini si concentrò alla codificazione della legge, spostando il nucleo centrale dell’identità ebraica dal Tempio alla Torà, creando un sistema le cui pareti non potevano essere sfondate dal nemico, per quanto fosse armato. La nascita della Mishnà rappresenta un passaggio epocale, perché fornisce una presentazione dell’ebraismo come una fede e una pratica non vincolata ai repentini cambiamenti della storia.
Rav Sacks amava dire che non dobbiamo mai sprecare una crisi, si tratta di un momento prezioso. Nella tradizione ebraica, proprio partendo dall’etimologia del termine mashber, ogni crisi è considerata la preparazione per una nascita. Quando si verifica una crisi, individualmente e collettivamente, dobbiamo sforzarci di rendere il mondo un posto migliore. Per illustrare questo approccio, Rav Sacks inizia a studiare l’idea ebraico del viaggio. Il primo viaggio significativo che dovrebbe ispirarci è quello che Abramo, agli albori della storia ebraica, ha affrontato, abbandonando la terra natia, rivolgendosi alla propria essenza più intima, così come vari commentatori spiegano l’espressione Lekh Lekhà – vai per te/a te. Non è possibile rimanere fermi. Questo ha definito la sensibilità ebraica nei secoli. Dove altri hanno mostrato accettazione, gli ebrei hanno protestato. Dove gli altri hanno maledetto l’oscurità, abbiamo acceso la luce. Mentre gli altri convivono con il mondo così com’è, noi ci sforziamo per cambiarlo.
Potremmo pensare: chi siamo noi per cambiare il mondo? Siamo soli di fronte a sette miliardi di persone. Abramo è l’esempio più fulgido del fatto che non dobbiamo ragionare così. Abbiamo la capacità di influenzare le altre persone, così come faceva Abramo, che ha ispirato almeno metà dell’umanità, senza governare nessun impero, senza guidare alcun esercito, senza compiere dei miracoli. Tutto quello che ha fatto è stato rispondere a una chiamata e intraprendere un viaggio, un viaggio che però va controcorrente. Le persone, e lo sappiamo tristemente in questa epoca, abbandonano i paesi poveri per raggiungere quelli ricchi. Abramo lascia una superpotenza dei suoi tempi, la Mesopotamia, per andare verso l’ignoto. Abbiamo la capacità di cambiare le cose, possiamo realizzare quello che rav Sacks chiama cambiamento climatico culturale. Mentre per realizzare il cambiamento climatico è necessario mettere in campo sforzi generalizzati notevoli, ed è necessario che si coordinino un’infinità di entità, rendendo quindi la cosa molto difficile, per il cambiamento culturale è possibile imprimere una spinta dal basso, iniziando noi in prima persona e influenzando quanti ci circondano.
Nell’augurio che il terribile periodo che abbiamo vissuto stia volgendo verso il termine, possiamo abbozzare alcune riflessioni su ciò che ci lasciamo alle spalle e cosa ci aspetta. Chiaramente le religioni non possono fornire una risposta tecnica ai grandi problemi dei nostri tempi, ma possono fare quello che hanno sempre saputo fare meglio, dare un indirizzo per declinare quelle risposte e conferire senso all’esistenza degli uomini.
La maggior parte delle persone hanno mostrato, per necessità, di avere la capacità di modificare, anche in modo repentino, i propri comportamenti. Spesso si tratta solamente di una questione di volontà, e abbiamo mostrato di poterla avere.
Durante la pandemia la morte ci si è riproposta tristemente, con la sua scientificità, ogni pomeriggio, in un macabro rituale. Purtroppo credo che in tutti noi ci fosse una sensazione di impotenza, nel non poter buttare giù quelle curve, una volta per tutte. Tutti noi, in un modo o nell’altro, siamo entrati a contatto con la morte nelle nostre comunità e fra i nostri conoscenti, spesso nuovamente senza poter fare nulla o quasi per alleviare il dolore delle persone. Ciascuno di noi probabilmente ha realizzato la fugacità della vita umana. Essere vivi oggi non è una garanzia per il domani. Per questo dobbiamo considerare ogni giorno della nostra vita un dono. Al contrario di quanti ci hanno preceduto, abbiamo dato per scontata la nostra vita. Il Salmista (Sl. 90, 12) invitava a contare i propri giorni (limnot yamenu), perché ogni giorno aveva una propria dignità e un motivo per essere vissuto. Da parte nostra noi siamo tenuti invece a far contare i nostri giorni, a dar loro un significato.
Quelli che sono stati colpiti maggiormente nella pandemia sono stati, per diversi motivi, i bambini, i giovani e gli anziani. Nella società post-pandemica deve essere restituito loro il ruolo e l’attenzione che meritano. Tante ferite psicologiche e sociali dovranno essere guarite. A queste categorie dobbiamo tutti qualcosa.
Sarà importante non lasciare dietro nessuno, e le comunità, dal momento che lo stato non è in grado di seguire tutte le singole situazioni, rivestiranno un ruolo fondamentale. Anche se l’emergenza sanitaria si è attenuata, in tanti altri ambiti (ad esempio sociale, economico, psicologico) le difficoltà perdureranno e saranno necessari interventi puntuali.
La pandemia ha accresciuto il peso degli strumenti informatici nelle nostre vite, mettendone in risalto pregi e difetti. Vivere un lockdown senza questi strumenti avrebbe probabilmente reso ancora più triste la nostra condizione. Anche le comunità religiose hanno dato vita a tanti esperimenti, alcuni validi, altri meno. Sicuramente queste nuove modalità hanno permesso di raggiungere più facilmente le periferie delle nostre comunità, anche se spesso purtroppo in un senso unidirezionale. Alcuni elementi rimarranno in vita, altri, mi permetto di dire fortunatamente, scompariranno. Sarà importante accompagnare le persone nel ritorno a una situazione simile a quella che ha preceduto l’emergenza. Alcuni, almeno nelle prime fasi, manterranno la tendenza a rimanere isolati dal resto del mondo.
Vorrei ricordare alcuni passaggi di uno straordinario discorso che Rav Dario Disegni pronunciò nel 1940: “… l’ottimismo ebraico non è quello consueto alle anime semplici, in genere primitive, che non hanno l’orrore del male perché ne ignorano l’esistenza. Questo è l’ottimismo della giovanilità spensierata, per essenza fragile e caduco, la prima esperienza del male lo spezza e lo annienta. L’ottimismo ebraico è forgiato dal dolore, e dalla consapevolezza torturante di tutte le più squallide realtà. L’anima nostra non è semplice, è invece terribilmente complessa per virtù originaria, e per vicenda di destino che l’ha messa a contatto colla vita e coi dolori di tutte le genti! …Eppure malgrado tutto ciò, anzi appunto per tutto questo, noi siamo e rimaniamo incredibilmente ottimisti. Tutto il nostro sistema spirituale è dominato da quel senso di ottimismo acceso dalla speranza.” Anche Rav Sacks z”l nel suo ultimo libro Moralità, recentemente pubblicato in italiano, insiste sul concetto di speranza, basato sull’idea che assieme abbiamo la capacità di cambiare le cose. Dobbiamo trovare la forza di mostrarci ottimisti. Collaborando possiamo uscire dalla nostra difficile condizione e gettare le fondamenta per un’esistenza persino migliore.