Il valore delle usanze locali
Mi è capitato in questi ultimi tempi di celebrare matrimoni in cui lo sposo o la sposa non erano romani, o sono stati invitati rabbini non romani, e ogni volta c’è stato un po’ di imbarazzo sul posizionamento degli sposi sotto la chuppà. Nella comune consuetudine romana la sposa si colloca alla destra dello sposo, in altri luoghi sta alla sua sinistra, e quando si confrontano diverse tradizioni c’è sempre un problema da risolvere. In questo caso sembrerebbe un problema di poco conto, ma dietro c’è una lunga storia, che proprio a Roma ha avuto un suo sviluppo particolarmente acceso. Questa storia è venuta alla luce recentemente, in un articolo scritto da Eliezer Baumgarten e Uri Safrai (Mechqare Yerushalaim beMachshevet Israel, 5781 n. 26) e vale la pena raccontarla almeno per sommi capi.
I dettagli di ogni procedura cerimoniale di solito sono definiti, e il matrimonio non fa eccezione. Solo che alcune cose sono prescritte chiaramente, anche se esistono tradizioni diverse, altre sono meno definite, e ci si rifà alla consuetudine, al minhàg. Di solito siamo molto attenti al minhàg, che è una sorta di specifica identità locale, e facciamo bene a difenderlo. Ma molto spesso un minhàg che a tutti sembra normale e consolidato, non sappiamo in realtà a quando risalga, chi l’ha istituito e perché. Qualche volta ha radici antichissime, anche millenarie, ed è documentato in testi accreditati; altre volte è relativamente più recente, anche di pochi decenni, anche se sembra chissà quanto antico, e ha soppiantato altri minhaghìm. Tornando alla posizione degli sposi tutti sappiamo che a Roma si fa così e le memorie personali e le foto più antiche possono dimostrarlo. Ma da quando? A questa risposta è difficile rispondere con precisione, ma ora ci sono documenti di 500 anni fa che dimostrano che su questo problema si scatenò una piccola tempesta.
I primi decenni del ‘500 furono turbolenti per l’arrivo dei profughi spagnoli e dell’Italia meridionale, per il continuo afflusso da nord, per eventi drammatici come il sacco di Roma del 1527. Ogni nuovo arrivato portava le sue tradizioni ovviamente sostenendo che quelle sue erano quelle giuste. Qualcuno dei locali protestò per l’invasione e l’ingerenza (scenario consueto che si ripete anche oggi). Nel 1538 dirigenti comunitari, che allora erano i tre “massari”, vollero andare fino in fondo per capire quale fosse l’originaria tradizione romana e fecero dei quesiti, a Roma e altrove. Di questa corrispondenza ci è rimasta qualche traccia, soprattutto in due risposte di orientamento diverso. Un rabbino romano, Yehudà ben Michael, che era anche un medico importante (chiamato abbìr harofeìm, “campione dei medici”) scrisse una vibrante protesta contro l’abitudine, che secondo lui era stata di recente importata da fuori, mentre nelle antiche tradizioni romane, confermate da testimonianze di anziani, la sposa era sempre stata a sinistra. Chi fossero gli importatori del nuovo uso non lo dice, ma dovevano essere gente del nord, presumibilmente ashkenaziti. Ma la domanda dei massari circolò e da Recanati arrivò una risposta di tutt’altro senso. Il rabbino Yaacov Israel Finzi, con toni ispirati, nel paese dove tre secoli dopo sarebbe fiorito Leopardi, parlò del valore della donna e della sposa, portando avanti una tesi del tutto opposta a quella del rabbino romano: la sposa per lui deve stare a destra dello sposo.
La polemica tra i due rabbini è interessante per tanti motivi, e uno di questi è il tipo di argomenti portati, che sono essenzialmente basati sulla kabbalà. Si tratta insomma di una discussione sui simboli della mistica ebraica e sulle conseguenze che ne derivano nella regola pratica. Per spiegare molto brevemente i termini della questione, bisogna capire che nella kabbalà il ricorso a immagini simboliche è essenziale e tra le tante sono importanti le contrapposizioni destra-sinistra, maschio-femmina, chesede din (passione e giustizia). Nei mondi superiori gli attributi divini, le sefirot, si dispongono con queste contrapposizioni. Secondo i kabbalisti negli atti che compiano, soprattutto con valore rituale, bisogna rispettare e imitare la struttura dei mondi superiori, in cui l’elemento maschile sta a destra e quello femminile a sinistra. Tutta la scena delle nozze che si svolge sotto a una chuppà, è interpretata nei suoi dettagli come una imitazione dei mondi superiori delle sefirot. Per questo motivo, ragiona il rabbino romano, se in alto la “femmina” sta a sinistra, tale deve essere la sua posizione sotto la chuppà. A rinforzo della sua tesi porta alcune citazioni da testi di kabbalà tra cui una dallo Zohar in cui si dice che la costola di Adamo da cui venne creata Eva era una costola sinistra (particolare che la Torà non dà). Nel 1538 lo Zohar non era stato ancora stampato e il problema è che questo brano non si trova nelle edizioni stampate e nei manoscritti.
La risposta di Finzi, che era un esperto di kabbalà e forzava le decisioni di halakhà in base alle dottrine kabbaliste, è che è vero che la donna ha una simbologia a sinistra, ma proprio per questo, nel momento delle nozze, la sposa si deve collocare a destra, in modo tale che la carica di severità, propria della sinistra, si addolcisca e si trasformi in amore.
C’è un altro aspetto che entrambi discutono, e è l’insegnamento più esplicito sul problema della posizione degli sposi, proveniente da Eleazar di Worms (Magonza 1176-1238), autorità rabbinica riconosciuta, talmudista e attivo nel movimento del Hasidismo tedesco. Diceva rabbi Eleazar che il fatto che la sposa debba stare alla destra è indicato da un versetto dei Salmi (45:10) dove è detto נצבה השגל בימינך, “la compagna sta alla tua destra”. Secondo il rabbino romano, Eleazar di Worms si ferma al significato letterale, è un filosofo (termine che ha connotazioni polemiche e offensive) che non capisce il senso profondo dell’espressione; secondo Finzi si tratta di accuse molto irrispettose mentre il parere di rabbì Eleazar va rispettato al massimo.
Non sappiamo come sia andata a finire la discussione nel 1538 e quando si è arrivati a Roma a una decisione definitiva. Certo è che prima e dopo in ogni luogo sono andate avanti le opposte tradizioni. Anche le testimonianze iconografiche, in cui si rappresentano in manoscritti ebraici miniati le nozze, danno indicazioni contraddittorie. E potrebbe essere una fonte importante anche l’iconografia cristiana che rappresenta “lo sposalizio della vergine”, un episodio di storia cristiana narrato nei Vangeli apocrifi, ma che aveva ebrei come protagonisti; i pittori in qualche modo rappresentavano una scena ebraica in cui uomini e donne sono divisi e Giuseppe infila un anello nelle dita di Maria; quanto alla destra e sinistra, poco prima della discussione romana, nel 1504, due grandi pittori si cimentarono sul tema con due scene che sono entrate nella storia dell’arte; Pietro Perugino, che lavorava a Perugia, e il suo giovane allievo Raffaello Sanzio che in quel momento stava a Città di Castello. Nei due quadri le posizioni degli sposi sono invertite. Perugia e Città di Castello erano sedi di importanti comunità ebraiche; in particolare da Città di Castello, venti anni prima, era partito per recarsi in terra d’Israele il suo rabbino, Ovadià da Bertinoro.
Tornando alle fonti ebraiche, in un testo sul matrimonio (Chuppat Chatanima pag. 33a) scritto dal livornese Refael Meldola (1754-1828) che fu rabbino dei Sefarditi di Londra, si dice che le tre parole dei Salmi, citate da Eleazar di Worms, contengono nelle lettere finali la parola kallà, sposa; aggiunge un insegnamento del Chidà (Azulai) che avrebbe sentito a nome di Izchaq Luria (haArì haqadòsh) che quanto indicato dal Salmo andava bene fino a che è esistito il Santuario, ma ai nostri giorni bisogna mettere lo sposo a destra, perché un versetto dice השיב אחור ימינו “ha tirato indietro la Sua destra”(Ekhà 2:3).
Insomma, questo è il tipico caso in cui a sostegno di opposte letture vi sono autorità e fonti di tutto rispetto, e non rimane che conformarsi all’uso locale, ammesso che esista…