Le sfide della bioetica secondo il rabbino capo di Roma. Colloquio con Riccardo Di Segni di Francesco Rositano
«In generale non è giusto sospendere il trattamento di nutrizione e idratazione: per noi l’acqua e il cibo hanno lo stesso valore dell’ossigeno. E non si può privare una persona del diritto di respirare. Pertanto se in un caso come quello di Eluana Englaro ci fosse stato chiesto un parere ci saremmo orientati per non interrompere il trattamento di nutrizione e idratazione. La vita come il corpo non sono di proprietà esclusiva della persona. Ciò, però, non significa che l’uomo sia condannato a soffrire». Con queste parole il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni esprime a Liberal la sua posizione sulle questioni di più stretta attualità: vita e morte, testamento biologico, morte celebrale. Questioni su cui recentemente si è pronunciato anche il presidente dei vescovi italiani, il cardinal Angelo Bagnasco, dimostrando un’apertura della Chiesa cattolica ad una legge sul testamento biologico.
Qual è la posizione del rabbinato sul testamento biologico?
Su questo argomento c’è stata un’ampia discussione negli Stati Uniti. La posizione è che un ebreo osservante può fare un testamento biologico delegando ad un’autorità del rabbinato una serie di disposizioni da prendere qualora lui non sia più in grado di disporre lucidamente. Ciò significa quindi che l’autorità rabbinica interviene nel processo decisionale, ma il suo giudizio non ha valore assoluto: il nostro sistema etico, infatti, prevede che una persona abbia tutto il diritto di non voler soffrire. Quindi la disposizione della persona viene presa in considerazione ma in qualche modo è il fiduciario che, tenendo presente la volontà di chi si è rivolto a lui, può orientare le decisioni. Quanto all’eutanasia, il nostro orientamento in linea generale è contrario nell’intervenire per provocare direttamente la morte. Anche se in alcuni casi precisi è possibile rimuovere gli impedimenti artificiali.
L’idea fondamentale è che il corpo non sia una nostra proprietà ma un bene che ci è stato messo a disposizione: il corpo come la vita. Per cui in condizioni normali il pensiero rabbinico protende per la vita e non per la morte. Certo, nei casi di estrema sofferenza e dolore, bisogna affermare che la decisione di un paziente che si trova in quelle condizioni non è di per sé condannabile. Il paziente non può, quindi, essere giudicato per decisioni dettate dalla sofferenza Il punto è questo: non siamo né per una assoluta autonomia della persona, né per un paternalismo. Siamo contrari all’idea di affidare acriticamente la vita di una persona al medico, partendo dal presupposto che il suo compito sia quello di salvare la vita della gente. Bisogna, però, valutare caso per caso.
C’è un’estrema comprensione per gli aspetti drammatici di entrambe le parti coinvolte. Su questo, comunque, argomento le principali autorità rabbiniche sono del parere che l’ossigeno e i trattamenti essenziali riguardanti la nutrizione e l’idratazione non devono essere sospesi. Il problema si pone soltanto se la somministrazione avviene in maniera invasiva. Ci terrei a precisare che questo è l’orientamento generale anche se bisogna tener presente che nel mondo ebraico tranne concetti essenziali non c’è l’assoluta unanimità di pensiero, ma c’è sempre una dialettica tra le varie autorità. Da noi non esiste un unico magistero come nella Chiesa cattolica.
Su questo argomento c’è stata una grande discussione a partire dal 1968 quando si è aperta l’epoca dei trapianti. E contemporaneamente si è visto che per poter fare un trapianto cardiaco e poi anche di polmoni e di fegato era necessario espiantare l’organo da un corpo con cuore battente. Quando sono stati formulati i principi di Harvard, che sono dei principi anestesiologici in base ai quali si determinano i criteri della morte celebrale, il mondo rabbinico si è diviso in due parti. Una parte ha sostenuto che il concetto di morte è un concetto che non ha un valore esclusivamente clinico, ma un valore filosofico, culturale, religioso, giuridico. Quindi per questo gruppo di rabbini fino a quando il cuore batte la persona è considerata vivente.
L’altra scuola ha accettato il concetto di morte celebrale come criterio di definizione di morte.
Però ha criticato i criteri di Harvard come insufficienti e ha previsto altri parametri di valutazione che consistono in test aggiuntivi e in più ore di attesa per la diagnosi finale.
Il confronto con la Chiesa cattolica è lontano dai nostri orizzonti. In alcuni casi, fermi restando i principi di rigore, si cerca di essere comprensivi nei confronti di chi ha fatto scelte non condivise. Ripeto: nel nostro mondo quando ci si trova davanti ad una situazione di grande sofferenza la persona che dispone non è considerata punibile per quello che dispone. Insomma non possiamo non tener conto della situazione.
Grazie alla Rassegna Stampa Ucei