Tempio di via Eupili – Milano
Letta superficialmente potremmo pensare alla Parashà di Bo come a una Parashà di passaggio. Inizia descrivendo l’ultima parte delle dieci piaghe e termina nel mezzo della fuga dall’Egitto. Potrebbe essere anche vista come una serie di finali: la fine delle piaghe e la fine della schiavitù. Quello che è facile non notare è quanto Parashat Bo parli degli inizi.
Secondo Rabbi Yitzchak, citato dallo Yalkut Shim’oni e notoriamente citato da Rashi come suo primo commento sulla Torà, la Torà non doveva iniziare se non dal versetto “Questo mese sarà il tuo inizio dei mesi; sarà per voi il primo dei mesi dell’anno” (Shemot 12:2) che appare intorno alla metà della Parashà. Questo è il primo comando dato da D-o non a un individuo ma all’intero popolo ebraico. Con questo versetto la Torà si modifica da libro che racconta le gesta dei Patriarchi a libro di legge; dall’avvincente racconto delle generazioni di una tribù di pastori nomadi alla costituzione di un Popolo. Parashat Bo non è l’inizio della Torà, ma costituisce l’inizio della Nazione Ebraica. Oltre a dichiarare l’inizio dell’anno ebarico, Parashat Bo viene solitamente letta il primo Shabbat di Shevat, il mese noto per Tu biShvat, il nuovo anno degli alberi uno dei quattro capidanno descritti nella Ghemarà nel Trattato di Rosh haShanà.
Il midrash (Bereshit Rabbà 1:10) insegna che la Torà inizia con la lettera “bet” piuttosto che con la lettera “alef”, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, per mostrare che la creazione è una benedizione (“berachà”) piuttosto che una maledizione (“arirà“). Bo, bet-alef, le contiene entrambe. Le piaghe finali all’inizio della Parashà ci ricordano che benedizione e maledizione, inizio e fine, sono spesso facce della stessa medaglia. A causa dell’ostinazione del Faraone, la redenzione deve iniziare con la punizione per l’Egitto. Lo ricordiamo ogni anno nel Seder di Pesach, istituzione che nasce in Parashat Bo. Nel descrivere la nona piaga, quella delle tenebre, la Torà contrappone la luce che illuminava le dimore dei figli d’Israele e l’oscurità che avvolgeva gli egiziani. La luce ha un posto molto speciale nella nostra tradizione, come genesi della creazione. È il mezzo per adempiere alla Mitzvà della Menorà del Santuario, la luce si rinnova all’entrata di Shabbat tutte le settimane e le luci di Chanukkà illuminano ogni anno le nostre case. Il re Shelomò paragona la Torà alla luce: “Poiché la Mitzvà è una lampada e la Torà è luce”. La luce ha una qualità unica in quanto non può essere contenuta o limitata. Quando una candela è accesa, illumina l’intera stanza per tutti i presenti, non solo per la persona che l’ha accesa e, allo stesso modo, quando una candela illumina una stanza questa luce si diffonde anche in un’altra stanza e permette eventualmente di accenderne un’altra per illuminare altre stanze, permettendo a tutti di beneficiare di quella luce. Creare luce simboleggia quindi la sinergia simbiotica tra il sé e il mondo che ci circonda. L’oscurità dell’Egitto durante la piaga delle tenebre è descritta come: “Non si videro l’un l’altro, né nessuno si alzò dal suo posto”.
Da ciò, vediamo che se uno vede solo se stesso, senza notare la condizione di coloro che lo circondano, non eleva nemmeno se stesso. Questa oscurità è descritta come una fitta nebbia che eclissava ed estingueva qualsiasi fonte di luce perché l’atteggiamento di egoismo ha la capacità di cancellare qualsiasi tratto caratteriale positivo che una persona possa avere. Questo egoismo è personificato dal Faraone, che non era preoccupato per la sofferenza del suo stesso popolo, ma solo per la protezione del proprio ego.
Parashat Bo è, come detto in precendenza, parte integrante del Seder di Pesach. Racconta del primo sacrificio pasquale, del primo pasto pasquale e del primo pane azzimo. Fornisce l’ispirazione e il testo di gran parte del rituale del Seder, e passaggi del suo testo sono sparsi attraverso l’Haggadà. Fatta eccezione per il figlio chacham (che cita il Devarim), le domande e le risposte di tre dei Quattro Figli sono tratte da Parashat Bo (Shemot 12:26, 13:8, 13:14).
Ci volle molto coraggio per gli schiavi ebrei in Egitto per fare atti che mostrassero pubblicamente che il culto degli egiziani era privo di significato per loro. E ci vuole molto coraggio per difendere pubblicamente ciò che è vero e giusto anche quando non è popolare. Ma questo è quello che D-o ha chiesto loro ed è quello che chiede a noi.
La Torà è l’antitesi dell’oscurità, illumina il mondo con l’insegnamento della gentilezza amorevole, come hanno sottolineato i nostri saggi, “La Torà inizia e finisce con la gentilezza amorevole”. Questa Parashà che sembra essere solo una Parashà di transizione, si rivela in realtà essere una Parashà ricca di insegnamenti. Ci insegna comportamenti virtuosi da adottare attraverso l’esempio negativo del Faraone ma anche attraverso l’esempio positivo della luce che possiamo contribuire a portare con il nostro esempio positivo attraverso non solo l’osservanza delle mitzvot ma anche attraverso atti di chesed, di gentilezza e di aiuto verso gli altri nei momenti di difficoltà che possono capitare a tutti noi nella nostra vita. Il nome stesso della Parashà è una descrizione di come nel mondo siano presenti i due aspetti, positivi e negativi, della nostra vita, le cose buone come le cose meno buone. Sta a noi decidere di accendere la candela e portare sempre più luce nel mondo.