Ruth Wisse, grande protettrice del sionismo, ci spiega perché il suo popolo sbaglia quando sottovaluta il suo ruolo
Amy Rosenthal
“La storia politica ebraica è stata un fallimento in termini politici”, dice Ruth Wisse, la professoressa di Yiddish di Martin Peretz e docente di letteratura comparata all’università di Harvard, la signora che poco meno di un mese fa è stata premiata dal presidente americano, George W. Bush, con la prestigiosa medaglia nazionale per le scienze umanistiche. “I suoi scritti penetranti – ha dichiarato Bush in quell’occasione – hanno arricchito la nostra comprensione della letteratura e della cultura yiddish nel mondo moderno”.
Eppure Wisse, nel suo ultimo libro, “Jews and Power” (Schocken Books, 2007), un’ampia panoramica della storia della politica ebraica da Re Davide a oggi, sostiene a chiare lettere il fallimento del popolo ebraico. Da lei, nessuno se lo sarebbero aspettato. E’ una studiosa che ha curato antologie di poesia e prosa yiddish nell’arco di una brillante carriera accademica, oltre ad aver scritto numerosi libri, ed è anche una commentatrice conservatrice di politica israeliana che ha redatto innumerevoli articoli e libri a difesa del sionismo.
Al Foglio Wisse spiega: “Il fallimento degli ebrei in termini politici è difficile da riassumere in poche battute, bisogna pensarlo come fossero tre atti. Nel primo, gli ebrei trovano un modo di sopravvivere politicamente nonostante la perdita della propria terra natia”. Per esempio, durante la prima distruzione del Tempio e la prima diaspora a Babilonia, gli ebrei vengono sconfitti e si trovano esiliati, “ma non attribuiscono il loro fallimento alla superiorità babilonese – continua Wisse – non dicono ‘abbiamo perso contro i babilonesi’, ma piuttosto ‘abbiamo perso perché non compiacciamo Dio’. Questo atteggiamento porta alla creazione di un accordo triangolare, invece che bilaterale. Ovvero, se gli ebrei avessero soddisfatto i requisiti posti da Dio, sarebbero stati restituiti alla loro terra natale. Il che induce una specie di indipendenza politica, per cui non ritengono di doversi giudicare alla luce soltanto dei propri fallimenti militari, ma si possono dire ‘sì, abbiamo sofferto questa tremenda sconfitta militare e l’umiliazione, ma Dio è il Re dei Re, Sua è la massima potenza”.
Qui la studiosa sembra respingere l’assunto secondo cui soltanto Dio proteggerà gli ebrei: “Prendiamo per esempio l’intervento della Persia (il proclama di Ciro, re di Persia, che nel 538 a.C. permise ai babilonesi in esilio di tornare in Giudea, ndr). Non sono stati gli ebrei a volere indietro la propria terra, ma la Persia che ha permesso loro di tornarvi. Ciononostante, possono comunque dire ‘be’, questo è successo perché abbiamo soddisfatto la volontà di Dio'”. Per quanto critichi questo modo di pensare, Wisse ne vede anche un lato positivo.
Ponendo l’onere dell’autodeterminazione nella propria condotta e nell’approvazione divina a essa collegata, il popolo ebraico si è posto al di fuori della storia. Non sono gli uomini e gli eserciti a determinare il loro futuro, ma la fede nell’onnipotente e la convinzione che un giorno saranno ricondotti alla propria terra patria e a un Tempio ricostruito. Questa fiducia ha permesso agli ebrei di adattarsi a diverse lingue e culture, di sopravvivere a secoli di privazioni e di riuscire a essere nazione dove centinaia di altre hanno fallito.
“Vediamo una grande tenacia, che poi ha condotto gli ebrei a lanciare quello che io considero un grande esperimento politico, ovvero la capacità di resistere, sopravvivere e prosperare come nazione senza i tre pilastri dell’esistenza nazionale: la terra, strumenti indipendenti d’autodifesa e un governo centrale”. Questa “difficoltà” dominò la scena fino all’emancipazione nell’Europa del XVIII secolo, che Wisse ritiene essere “il secondo atto della storia politica ebraica”. Che spiega così: “Tutti, ebrei compresi, sentono che le cose stanno così. Ora possono essere cittadini di un paese, come tutti gli altri, e la democrazia li favorisce, grazie al principio ‘una testa, un voto’. Bene. Ma c’è un punto che nessuno coglie, e cioè il fatto che finché c’era un’autocrazia, con la concentrazione del potere in una sola persona, tutto quello che gli ebrei dovevano fare era compiacere quella persona. Ma non appena prende avvio la democrazia, in qualsiasi forma, allora è necessario ottenere la fedeltà di vasti numeri di persone e convincerle a eleggerci o appoggiarci. E’ qui, con l’avvento della politica moderna, che la minoranza ebraica diventa obiettivo dei demagoghi antiliberali e antisemiti, che dicono ‘pensate che la democrazia, la liberalizzazione, l’emancipazione e tutte queste cose bellissime della modernizzazione vi portino tutto il bene possibile, ma no, l’unica cosa che succederà è che sarete soppiantati dagli ebrei, perché tutte queste cose sono in realtà loro strumenti. Usano questo pretesto per prendere possesso della nostra nazione'”.
“Nel terzo atto – continua Wisse – il sionismo, in una certa misura, comprende che gli ebrei non possono continuare così e che devono creare una forma di protezione autonoma, reclamando la propria terra”. Per quanto sostenga che si trattasse di “un’ipotesi ragionevole al tempo dell’emergere degli stati-nazione”, quella pretesa sottovalutava il fascino dell’antisemitismo. “Nessuno capì che all’epoca l’antisemitismo era diventato uno strumento politico tanto forte da poter essere usato indipendentemente dal fatto che gli ebrei avessero o no una terra”, esclama.
Ma se, secondo il pensiero ebraico classico, Dio è onnipotente, che possibilità hanno gli ebrei di determinare la propria fede nazionale e di detenere il potere sovrano?
“Una delle cose che cerco di fare nel mio libro è dire: ‘Vedete, non potete trascurare la dimensione mancante dell’autodifesa militare’. Di fatto, in passato, si guardava al proprio contratto con Dio in modo diverso da quanto avviene oggi. Penso che persino gli ebrei ortodossi, nella maggior parte dei casi, a esclusione degli ultraortodossi, sarebbero pronti a dire che se l’Olocausto ha rivelato qualcosa è che Dio si attende che gli ebrei agiscano per conto proprio nella storia. In altre parole, se costruiscono la terra di Israele, ce l’avranno; e se non lo fanno, non l’avranno. Questo non significa rifiutare l’idea di un Dio vigile superiore, ma che ciascuno, non diversamente da quanto fanno i bambini, deve maturare e sa che deve operare in modo più indipendente dai propri genitori, se vuole farli felici. Lo stesso vale nella storia del giudaismo. Non è più possibile essere passivi e impotenti, bisogna muoversi in modo efficace in politica, perché nessuno si farà avanti con la soluzione a tutti i mali all’ultimo momento”.
“Il giudaismo – continua Wisse – ha tutti gli attributi di quel che poi abbiamo chiamato democrazia. Il popolo ebraico è il più dinamico nella storia del mondo perché si è adattato a innumerevoli lingue, climi, culture e opportunità economiche. Mentre faceva tutto questo, ha sviluppato la capacità di adattamento. Oggi diciamo che il cambiamento è una costante. E’ sempre stata la definizione della vita ebraica, visto il numero di volte che si sono dovuti riadattare. Perciò, la capacità di cambiare e di adattarsi è il risultato di molti elementi collegati alla parola ‘democratico’. Per esempio, la responsabilità individuale, l’alfabetizzazione universale e il principio per cui i rabbì devono guadagnarsi la propria autorità. Non sono eletti, ma non sono nemmeno autocrati, perché devono negoziare il proprio potere. Gli ebrei diventano un modello di come una comunità organizzata può funzionare da tutti i punti di vista dimostrandosi utile al potere di turno. Quel che ha permesso loro di sopravvivere è stata la capacità di rendersi utili, se non indispensabili, a chi deteneva il potere, in cambio della sua protezione”. L’obiettivo del libro di Wisse è incoraggiare la gente “a osservare la politica ebraica”.
Si è sempre pensato che gli ebrei vivessero al di fuori della politica.
“Tutti gli storici ci hanno detto che la politica ebraica si è interrotta nell’anno 70, per poi riprendere con lo stato di Israele, ma ciò non ha senso. Gli ebrei sono sempre stati una comunità or- ganizzata, e il loro modo di fare politica non è stato semplicemente differente, ma addirittura opposto alla maggior parte del resto del mondo. Gli altri, per lo più, vivono con una terra, un’autorità politica centrale e degli strumenti di autodifesa, mentre gli ebrei hanno vissuto adattandosi al potere in carica. Il problema è che hanno avuto tanto successo e si sono adattati al potere. Poi arriva sempre il momento in cui conviene tradire gli ebrei, invece di proteggerli. Conviene sempre distruggere gli ebrei, perché l’operazione non ha mai alcun costo politico”.
“E’ tragico rendersene conto – dice Wisse – ma la possibilità che esista l’antisemitismo non è stata cancellata, anzi si è rafforzata. Il mondo arabo-musulmano lo usa oggi come l’Europa faceva in passato, se non peggio. Gli ebrei costituiscono un gruppo sufficientemente piccolo da poter essere demonizzato senza rischi, perché Israele non ne chiede mai conto. Sfortunatamente – esclama – Ecco perché le politiche d’Israele stanno diventando sempre più fatali ogni giorno che passa! Non capiscono che, a meno di far pagare alla gente il prezzo di quello che ci fanno, lo rifaranno”. L’accademica di Harvard insiste sul fatto che gli ebrei oggi continuano a ricascare in quello che chiama “il meccanismo famigliare dell’adattamento”, e sostiene: “Israele pensa di doversi adattare, perché, così facendo, qualcuno lo proteggerà; ma, onestamente, questo modus operandi della politica deve cambiare. E’ doloroso e complicato, perché dobbiamo accettare il fatto che l’aggressione ideologica e politica è molto più grave di quella cui sia sottoposto qualsiasi altro popolo o nazione”.
Leo Strauss riteneva che, per quanto il sionismo volesse raggiungere una soluzione politica, non avrebbe comunque risolto la questione ebraica.
“Sì, ma come dico sempre – ribatte Wiisse – non ha risolto il problema così come aveva sperato la popolazione. Non ha risolto il problema politico, l’ha perpetuato. Gli ebrei continuano a svolgere, nella storia, lo stesso ruolo che hanno da secoli. L’unica differenza è che questa volta si trovano al fronte della battaglia in cui è impegnato tutto il mondo democratico. Che lo volessero o no, il loro ruolo è stato amplificato”. Poi racconta: “Un mio amico mi ha detto: ‘Non voglio essere l’arma del popolo ebraico’. Ora, se non voleva essere l’arma del popolo ebraico, certo non voleva essere quella del mondo democratico. Eppure, che gli piaccia o no, questo è il ruolo che è stato assegnato agli ebrei”. Per questo “la gente non deve tollerare l’antisemitismo perché non è diretto contro gli ebrei. L’obiettivo ultimo è l’occidente e quel che noi riteniamo essere il meglio della civiltà”.
IL FOGLIO – 18 DICEMBRE 2007