Parashà di Vayelekh
Rav Scialom Bahbout
Il momento del congedo è sempre molto triste sia per il leader che per la Comunità che lo ha scelto o accettato come tale. All’inizio della parashà di Vayelekh troviamo scritto: Mosè andò e rivolse ancora queste parole a tutto Israele. Disse loro: «Io oggi ho centovent’anni; non posso più andare e venire; inoltre il Signore mi ha detto: Tu non passerai questo Giordano. (Deuter 31: 1 – 2). Tutto il libro del Deuteronomio contiene i discorsi che Mosè fece al popolo nell’ultimo mese della sua vita: oramai ha detto tutto ciò che aveva da dire e gli mancavano poche ore al momento della morte: ancora un paio di istruzioni, una riflessione sul futuro, l’insegnamento della Cantica che lascerà in eredità al popolo e sarebbe salito sul Monte Nevo: da lì avrebbe finalmente potuto ammirare dall’alto la Terra d’Israele, dove non gli era concesso entrare.
Già in questo incipit troviamo diverse affermazioni che possono farci capire come Mosè aveva cercato di interpretare la sua leadership, non una leadership al di sopra, ma all’interno del popolo:
Mosè andò: ma come? se fino a un momento prima Mosè, che aveva convocato tutto il popolo, aveva tutti davanti a sé, perché andò dal popolo quando poteva aggiungere ciò che aveva ancora da dire e fare, alla presenza di tutti. In effetti da qui si vede la grandezza di un leader che ha un rapporto speciale con ciascuna delle persone che lo hanno accettato: Mosè lasciò la sua tenda che era al centro dell’accampamento per andare a congedarsi di persona da ognuna delle famiglie delle 12 tribù: non ha fatto uso di un palco dal quale parlare con il pubblico e salutarlo in maniera “anonima” e asettica. Questo è il ruolo di un Maestro che non si sente al di sopra, ma cerca di vivere assieme alla sua Comunità.
Non posso andare e venire: ma come? Se proprio alla fine della Torà troviamo scritto che “Mosè aveva centovent’anni quando morì; la vista non gli si era indebolita e il vigore non gli era venuto meno”. Varie sono le interpretazioni date alle parole “andare e venire”: spesso indicano la capacità di muovere guerra, ma qui i Maestri lo interpretano soprattutto nel senso di avere la capacità di interpretare e insegnare la Torà. In quel momento Mosè si rende conto quanto gli sarebbe mancato il suo ruolo di Maestro, ruolo che sarebbe passato a Giosuè, cui il popolo, ma anche Mosè, dovrà rivolgersi per conoscere l’insegnamento della Torà. Vediamo cosa dice il Midrash a proposito delle ultime ore di Mosè (Tankhumà, vaetchannan 6):
Mosè si alzò e andò al mattino presto alla porta di Giosuè. Giosuè sedeva e spiegava… gli occhi di Giosuè si chiusero e non vedeva Mosè. Gli ebrei andarono da Mosè per studiare Torà e chiesero – Mosè, nostro maestro – dove si trova? Risposero: si è alzato di buon mattino ed è andato da Giosuè. Andarono e lo trovarono alla porta di Giosuè…. Gli dissero: Giosuè! il nostro maestro Mosè è in piedi e tu stai seduto? Appena lo vide, si stracciò le vesti, gridò e pianse: Maestro mio, maestro mio e mio signore! Dissero gli ebrei a Mosè: Mosè insegnaci la Torà. Rispose loro: non mi è permesso . Gli risposero: noi non ti lasciamo. Si udì una voce celeste che diceva: Studiate da Giosuè.
Giosuè sedeva e spiegava davanti a Mosè. Le tradizioni della sapienza furono tolte a Mosè e Mosè non sapeva cosa stesse insegnando Giosuè. Dopo che gli ebrei si alzarono dissero a Mosè: Non capiamo le parole di Giosuè. Rispose: non so cosa rispondere. Mosè continuava a non capire (Tanhumà, Vaetchannan 6)
Tu non passerai questo Giordano: il desiderio di Mosè di attraversare il Giordano per entrare nella Terra d’Israele lo aveva accompagnato per tutti i quarant’anni del deserto, anche quando il Signore gli aveva detto “Non continuare a parlarmi di questa cosa” (Deut. 3: 26), non aveva rinunciato all’idea. Il Midrash chiede come si possa spiegare una decisione così drastica da parte di Dio e trova una spiegazione nell’interpretazione di un testo di Ecclesiaste:
“Sono tornato ad osservare sotto il sole che la corsa non è dei veloci, che la guerra non è dei forti, che il pane non è dei sapienti, che la ricchezza non è degli intelligenti, che il successo non è dei dotti, poiché il tempo e il caso incidono su tutte le cose” (Ecclesiaste 9: 11)
Cosa significa “La corsa non è dei veloci”? Ha detto rabbi Tanhumà: questo testo parla di Mosè. In che senso? Ieri saliva in cielo come un’aquila, adesso vuole passare il Giordano e non può farlo, come è detto: poiché non puoi oltrepassare questo Giordano (Deut. 3: 26);
“La guerra non è dei forti”: ieri gli angeli tremavano davanti a lui e ora egli dice: “poiché io ho avuto paura dell’ira e del furore” (Deut. 9: 19);
“Il pane non è dei sapienti”: ieri “un sapiente assalì una città di prodi e ne espugnò le forti difese, oggetto della loro fiducia” dal cielo (Proverbi 21: 22), e adesso gli è stata tolta e data a Giosuè figlio di Nun.
“La ricchezza non è degli intelligenti”: Ieri parlavi come un ricco (con sicurezza): “ritrai la tua ira” (Esodo 32: 12), “perdona la colpa di questo popolo” (Numeri 14: 19) comportati verso di me con grazia, gratuitamente.
“il successo non è dei dotti, ieri sapeva rabbonire il suo creatore e adesso dopo avere chiesto misericordia per settegiorni, alla fine il Santo, benedetto sia, gli ha detto: “Ecco si sono avvicinati i tuoi giorni per morire.”
Anche il più grande dei Maestri può incorrere in errore, è un essere umano e soprattutto perde con gli anni la freschezza e lo smalto che aveva all’inizio e non aveva più la forza per affrontare l’ultima parte del viaggio: l’ingresso nella Terra Promessa e la guerra per conquistarla.
Ma perché Mosè voleva attraversare il Giordano? Almeno per due motivi:
a) Rappresenta il momento conclusivo della sua missione, come promesso da Dio stesso (Esodo cap. 6: 8 “Vi porterò alla terra”) e voleva essere lui a concludere una missione che aveva accettato a malincuore, ma cui ora teneva e temeva che il suo successore non sarebbe stato in grado di portarla a termine (anche se assieme a Kalev si era opposto alla ribellione degli esploratori).
b) Nella Terra promessa avrebbe potuto finalmente creare la società basata sulla Torà che solo lui poteva conoscere a fondo perché a lui era stata rivelata.
Il passaggio di poteri: Mosè è presente, ma non è l’attore
Il Signore disse a Mosè: «Ecco, il giorno della tua morte è vicino; chiama Giosuè e presentatevi nella tenda del convegno, perché io gli comunichi i miei ordini». Mosè e Giosuè dunque andarono a presentarsi nella tenda del convegno. In un primo momento – Numeri 27:18 – 19 – Dio dice: Prendi per te Giosuè davanti a tutta l’assemblea e tu lo ordinerai davanti ai loro occhi. Nel momento del passaggio delle consegne vediamo che non è più Mosè a trasmettere il potere, ma Dio stesso: se è il capo che trasmette il suo potere al successore, è un conto, ma Mosè deve subire una perdita di immagine non indifferente.
Mosè vuole garantire un futuro alla Torà: prima di morire Mosè decide quindi di scrivere 13 copie della Torà: una per ogni Tribù e un’altra da mettere nell’Arca Santa vicino alle tavole della legge: in questo modo non sarebbe stato possibile contraffare la Legge perché una coppia originale rimaneva sempre nell’Arca santa pronta per un confronto. Questo fatto dimostra quanto in realtà Mosè non si fidasse di ciò che sarebbe successo dopo la sua morte.
I miracoli non cambiano l’uomo
Ma ciò non basta. Il Signore disse a Mosè: «Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri; questo popolo si alzerà e si prostituirà con gli dèi stranieri del paese nel quale sta per entrare; spezzerà l’alleanza che io ho stabilito con lui …. Io, in quel giorno, nasconderò il volto …
Cosa preoccupa Mosè: tutto il libro del Deuteronomio è una sequenza di lamentele di Mosè che sa che con la sua morte non ci sarà nessuno che sarà veramente in grado di prendere il suo posto. Lui ha la chiara sensazione di avere fallito nella missione di cambiare veramente il popolo ebraico uscito dall’Egitto: Mosè si rende conto che non è riuscito a estirpare l’Egitto dagli ebrei e quindi è consapevole del fatto che in futuro il popolo si allontanerà dalla Torà, una legge che non ha mai veramente accettato, come dimostrano le sue numerose ribellioni nel deserto. L’errore fondamentale di Mosè (come di molte persone che guidano una Comunità o un popolo) è quello di non avere creato e associato alle sue decisioni una classe dirigente con cui condividere le scelte di potere: in questo caso la rapidità delle scelte è garantita, ma il fallimento successivo è altrettanto garantito. Nel caso di Mosè, il fallimento è ancora più grave perché Mosè era stato artefice di grandi prodigi sia in Egitto che nel deserto. Ma i prodigi e i miracoli non bastano a cambiare le persone. La storia ebraica dimostra che generazioni di ebrei non hanno avuto nessuna esperienza simile a quella avuta dalla generazione del deserto, ma nonostante questo sono rimaste fedeli alla Torà. Ciò che ha cambiato il popolo ebraico è stata la trasmissione e l’insegnamento costante delle norme e dei valori che erano alla loro base. Questo ha fatto sì che generazioni e generazioni, che non avevano assistito a nessun miracolo, siano state pronte a affrontare anche i roghi per non rinunciare alla Torà.
Mosè: il più grande dei profeti, ma rimane un uomo
La Torà fin dall’inizio vuole evitare che Mosè possa essere considerato un Dio o un semi – Dio. Questo è uno dei motivi per cui anche il luogo della sepoltura di Mosè non verrà mai comunicato: molto forte era il pericolo che potesse essere luogo di pellegrinaggio e di idolatria. Basti pensare alla costruzione di mausolei dedicati a grandi leader: il culto della personalità è stato ed è un fenomeno ancora presente nelle società contemporanee.
Dalla Torà e dai Midrashim che abbiamo citato, la figura di Mosè, per quanto eccezionale, rimane comunque una figura che ha contorni esclusivamente umani. Già nell’Esodo Mosè viene presentato come parte di una normale famiglia, con genitori e fratelli (6: 16 – 28). Delle tre religioni che si sono comunque ispirate ai principi contenuti nella Bibbia, l’Ebraismo è l’unica che non riservi al suo personaggio centrale un ruolo esclusivo – senza il quale cioè quella religione non avrebbe senso. E’ noto che Mosè non ha un ruolo nella Agadà di Pesach, nonostante egli sia stato protagonista fondamentale in tutto il processo di liberazione dall’Egitto.
Le altre due religioni monoteiste danno al personaggio centrale di riferimento una definizione divina o un ruolo centrale insostituibile, senza il quale quella religione non avrebbe senso. Mosè sale sulla montagna con le sue forze, non è oggetto di miracoli e come dice il midrash, nonostante sia considerato il più grande dei profeti, non vengono per lui stravolti i confini umani.
Queste furono le ultime parole di Mosè, secondo il midrash (tankhumà ibid): “Prese le sue due braccia, le mise sul suo cuore, e disse a Israele: “Vedete, questa è la fine di una persona di carne e sangue”.
L’ebraismo è sempre esistito senza si sia dovuto far ricorso alla figura di Mosè. Un antico detto ebraico afferma infatti: morto Mosè, c’è rimasto Dio.
Scialom Bahbout