Elena Loewenthal
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Non è facile essere ebreo: lo spiega Riccardo Calimani nel suo nuovo libro, appena pubblicato con questo titolo dalla Nave di Teseo (pp.167, € 12). E lo fa rivolgendosi soprattutto a chi ebreo non lo è, passando dalla mistica della Qabbalah all’umorismo, dal tabù dell’idolatria all’espulsione dalla Spagna, nel 1492. Il volume si presenta come un’agile guida ai fondamentali di un’identità religiosa, storica, culturale davvero difficile da cogliere: è ebreo chi è figlio di madre ebrea (grande privilegio, entro i confini di una società tanto per cambiare ad alto tasso di maschilismo), oppure chi si converte all’ebraismo (cosa che per lo più non è nota e desta immancabilmente un certo stupore: ma come, si può diventare ebrei? Sì, a patto di aver voglia di studiare). Se non che, al di là di questo assioma, tutto si complica in un insieme di comuni denominatori e apparentemente insormontabili differenze che si riconoscono nella varietà delle declinazioni. In parole povere, essere ebreo a Varsavia, a Cochin in India, a Sanaa in Yemen, a Roma o a Buenos Aires significa – e significava – cose molto diverse. E la stessa inafferrabilità si coglie ovviamente in una prospettiva diacronica.
Calimani riesce a impostare il racconto dell’identità in modo scorrevole e comprensibile, addentrandosi nei suoi meandri: «Che cosa è un ebreo? È uno che quando gli racconti una storiella ebraica ti risponde che la sapeva già e te la ripete migliorandola. Non potrei quindi spiegare a un ebreo che cosa significa essere ebreo: non soltanto lo sa benissimo, o crede di saperlo, ma sarebbe capace di spiegarlo molto meglio di me. Dunque, ai lettori ebrei queste pagine non servono».
Ma in realtà il libro è utile anche a chi questa identità ce l’ha. Come dice un’altra vecchia storiella, la prima cosa che un ebreo fa da naufrago su un’isola deserta è costruirsi due sinagoghe: una che frequenterà, l’altra dove non metterà piede manco morto. Perché al di là della difficoltà, come dice il titolo del libro, il punto è che essere ebrei è terribilmente complicato, costringe a un confronto continuo con la complessità della propria condizione – storica, religiosa, nazionale, culturale, linguistica e chi più ne ha più ne metta. Ma forse soprattutto con quel paradosso che è una Legge divina fondamento dell’identità, che però ti impone il principio della libertà come precondizione dell’osservanza (se non hai la facoltà di trasgredirla, rispettare la legge non è più un merito, violarla non è più una colpa). Forse tutto parte di lì, da quella contraddizione primigenia, che è anche, infondo, la cifra di ogni identità umana.
La Stampa, 16.12.2019