Capitolo 4: Il fondamentalismo e il rapporto terra-religione
Nella trattazione degli aspetti identitari dell’ebraismo diasporico e di quello israeliano, come emergono dalla stampa analizzata, abbiamo incontrato varie tipologie di definizione del rapporto che lega gli ebrei in generale allo Stato d’Israele. Sono state date nel corso del tempo tanto spiegazioni di carattere religioso-teologico quanto di tipo strettamente laico e razionalista. Ricordiamo ad esempio l’articolo di Gianni Baget Bozzo dove si leggeva: “…E’ il libro di Giosuè quello che Israele rivive ritornando signore della sua terra, lasciando quell’alleanza tra deserto, esilio e dispersione che è un filone portante della Bibbia ebraica e che è stato di fatto, ma non di principio, il cuore di Israele e della diaspora, dell’Israele perso tra le genti”1. Possiamo poi riproporre l’analisi di Marco d’Eramo per il quale il rapporto tra ebrei e Israele sarebbe stato assimilabile a quello tra sinistra e Unione Sovietica, un rapporto che vedeva l’utopia scontrarsi con la sua realizzazione: era la delusione “dell’utopia di tutta una collettività (la sinistra, il mondo ebraico) che si confronta con gli errori, le distorsioni, gli stressi tradimenti dell’utopia realizzata (URSS, Israele)”2. Marco d’Eramo aveva così argomentato la sua risposta alle accuse di antisemitismo mosse contro il suo giornale, il Manifesto, dal mondo ebraico italiano. Al suo articolo fece eco Filippo Gentiloni, altra firma della medesima testata, con uno scritto critico dell’accostamento fra ebrei e sinistra e fra Unione Sovietica e Stato d’Israele. L’articolo di Gentiloni dal titolo “La Terra d’Israele” si apriva con una premessa: per spiegare l’infondatezza delle accuse di antisemitismo era inopportuno fare riferimento a “pseudo-giustificazioni di carattere psicologico”, come quelle che facevano “certi ricorsi al concetto di olocausto”, perché gli sembrava “quasi che si voglia mettere le man avanti per poter dire qualche cosa”. “Il discorso sull’olocausto – continuava – non è una patente di non antisemitismo ottenuta una volta per tutte”. Il punto a suo avviso era un altro: quando si facevano distinzioni tra diaspora e Israele non bisognava dimenticare il “rapporto tra l’ebreo e la terra, la sua terra,…, parte essenziale dell’identità ebraica”. E questa constatazione gli faceva ritenere che il significato “storico, culturale, ma anche, insieme e soprattutto, religioso” della terra per l’ebraismo rendesse impossibile ogni parallelo comparativo col “rapporto che lega – o legava – i comunisti con l’URSS”. Per la stessa ragione Israele non avrebbe potuto costituire semplicemente un “simbolo” per la diaspora ebraica. Aggiungeva:
L’ebraismo, non lo si ripeterà mai abbastanza, non è uno spiritualismo salvifico: non è, come tutte le forme di cristianesimo, figlio (anche) di Platone. E’ terra, carne, sangue, vita.3
In definitiva per l’Autore nella critica al governo israeliano la diaspora avrebbe oscillato tra una “presa di distanza” e un completo rifiuto perché il “modello di opposizione è quello interno, quello degli ebrei di Israele”.
La dinamica politica e sociale all’interno di Israele vedeva fronteggiarsi posizioni fondamentaliste, legate al fattore religioso in senso nazionale; posizioni nazionaliste di destra, fortemente rispettose dei valori tradizionali dell’ebraismo; e infine le correnti laiche di sinistra ispirate a quella parte dei dettami biblici orientati in senso umanista o universalista4. Il denominatore comune di queste correnti politiche era il legame con la terra, fondamentale nei testi biblici dell’ebraismo come nella teoria sionista, alla quale si ispirarono i laici fondatori dello Stato d’Israele. La “Terra d’Israele”, dunque, era stata ed è tutt’ora patrimonio culturale, coscienza, identità e tradizione comune del popolo ebraico, il filo rosso di tendenze culturali e politiche anche diversissime tra loro.
Il punto di vista teologico-psicologico di Baget Bozzo enfatizzava l’aspetto religioso dell’ebraismo mentre quello di Marco d’Eramo ne privilegiava l’aspetto laico e moderno. La sintesi di Gentiloni è importante in quanto ricorda un legame preesistente tra il popolo ebraico e la Terra come fatto identitario e culturale, sebbene di indubbia derivazione religiosa. Ne sottolinea inoltre l’elemento materiale e concreto, l’ebraismo come “terra, carne, sangue e vita”, che non avrebbe potuto essere scisso da quello dottrinario e religioso. In effetti, il riferimento a una terra, o patria o nazione in senso moderno, non è mai mancato nel culto religioso degli ebrei della diaspora. Tuttavia non bisogna dimenticare che l’influenza della tradizione religiosa sulla cultura politica era stato tema di accesi dibattiti in Israele tuttora attualissimi. E la complessità delle tematiche non permette una univoca interpretazione. Allo scopo di approfondire questi aspetti andrebbero considerate anche le origini dei movimenti illuministi ebraici europei da cui nacquero le due principali correnti del sionismo laico nonché la genesi delle correnti politiche che potremmo definire conservatrici o custodi del tradizionalismo ortodosso.
Ma nella stampa di sinistra si enfatizzava il fattore religioso non come espressione culturale quanto come elemento destinato a mettere in dubbio la democraticità delle istituzioni impedendo l’affermazione completa della causa palestinese. Negli anni ottanta – ai quali si riferisce l’arco temporale della nostra analisi – l’oggetto delle critiche più accese fu la figura politica di Menachem Begin. Il leader del partito Herut, formazione storica della destra sionista, era noto per la sua retorica impregnata di riferimenti biblici oltre che per il suo continuo rimando al vissuto ebraico dei tempi del nazismo. Il primo ministro israeliano firmò il trattato di pace con l’Egitto e sotto il suo premierato fu completato il ritiro dal Sinai. In quegli anni, la stampa italiana di sinistra attaccò la politica beginiana in quanto espressione di una ideologia fondamentalista religiosa caratterizzata da un particolare espansionismo temporal-militare. Ma come vedremo questo valse in seguito anche per Shamir, nonché per Rabin, poiché molti articolisti avevano spesso ipotizzato una relazione di continuità della politica israeliana dalla fondazione dello Stato agli avvicendamenti correnti in quegli anni. Ovviamente tali critiche erano riferite anche a quelle politiche ritenute favorevoli ai cosiddetti “coloni dei territori occupati”, vero ostacolo per la pace e per la costituzione di uno Stato palestinese, nonché i veri depositari dell’ ideologia fondamentalista. Sia l’Unità che il Manifesto diedero ampio spazio nelle cronache al caso di Meir Kahane, rabbino di origine americana a capo del movimento oltranzista Kach, fino a farne un vero e proprio simbolo dell’estremismo politico-religioso israeliano. Non mancavano neanche i paragoni col fondamentalismo islamico degli Hezbollah sciiti libanesi o del movimento Hamas filo-siriano nato all’epoca della prima Intifadah. Prevaleva la convinzione secondo cui il maggiore ostacolo all’integrazione e alla tolleranza nei confronti dei palestinesi all’interno di Israele risiedeva nell’elemento di coesione, la terra, e nell’idea di appartenenza a una nazione, caratteristici del popolo ebraico.
Nell’Unità sotto il titolo di Stato e Scritture5, Emilio Sarzi Amadè sosteneva che lo Stato d’Israele sotto la guida di Begin e Sharon si era trasformato in uno Stato teocratico e tradizionalista dove venivano rivendicati “diritti biblici” di appartenenza usati per giustificare velleità espansionistiche. In un altro articolo Amadè, inviato dell’ Unità in Israele, cercò di fare chiarezza sulla complessità delle dinamiche esistenti tra istituzioni politiche laiche e un forte retroterra culturale politico-religioso, pesando anche l’influenza dei partiti religiosi alla Knesset. Egli sosteneva che l’equilibrio tra laicità dello Stato e religiosità (che, come specificò, era una componente essenziale della stessa “ebraicità”) fosse stato fortemente minacciato dall’azione del governo Begin. Osservava come partiti religiosi si fossero inseriti nelle vicende parlamentari coalizzandosi a sinistra come a destra e divenendo di fatto “arbitri delle sorti dei governi e possibili alleati di ogni coalizione”. Tali formazioni politiche erano state da lui stesso descritte in un articolo precedente “una ristretta minoranza teocratica e bigotta”6 che aveva il potere di controllare una maggioranza laica. “Ma la realtà – asseriva poi in questo articolo di poco successivo – come sempre accade, era ed è più complessa”. Nel tentativo di fare chiarezza e di ampliare la prospettiva d’analisi Amadè riportò la spiegazione datagli da un rabbino:
Gli edificatori del sionismo arrivarono dalla Polonia e dalla Russia in un quadro di rivolta contro l’elemento religioso. Cercavano una identità in senso nazionale, non nazional–religioso; sognavano uno Stato ideale, comunistico. Ma l’ideale sionistico come realizzazione nazionale in Terra d’Israele è parte della religiosità. (…) Il comune denominatore è questo: siamo uno Stato. In questo comune denominatore, si è cercato di mantenere dialettica la tensione di base per evitare esplosioni. (…) Ci si è liberati della patata bollente dello status giuridico della religione affidando certe questioni ai tribunali rabbinici, certe altre ai tribunali civili, creando una doppia cornice giuridica.(…).
Sarzi Amadè ne trasse le sue conclusioni: i partiti religiosi come il Tehiya, il Gush Emunim o il Tomi erano presi tra due fuochi, due prospettive che investivano “il problema stesso della natura d’Israele: Stato degli ebrei entro confini possibili, o Stato dominato dagli ebrei nei confini più ampi possibili? Una grande Israele da affermare col ferro e col fuoco della guerra, da far coincidere con tutti i territori biblici, oppure una Israele che rispetti il dettato fondamentale dell’ebraismo, di non spegnere vite umane e di preservare la vita, come considerazione che prevale su tutte? In quest’ultimo caso si possono cedere territori, anche biblici, perché questo è l’imperativo della religione”. Da ciò derivava che l’avvenire dello Stato sarebbe dipeso dalla scelta dei partiti minori. Dopotutto, scriveva, gli abitanti degli insediamenti ebraici nei territori occupati erano in maggioranza ebrei religiosi o “rozzi cowboys – come vengono soprannominati in Israele – provenienti dagli Stati Uniti per ripetere in Terra Santa la conquista del Far West.” Sarzi Amadè scorgeva un contrasto fra due visioni: quella di Begin, “una visione messianica e di potenza”, e quella laburista con “meno territori ma più ebraicità dello Stato Ebraico”.7
La destra israeliana fu irremovibile dalle proprie posizioni politiche: privilegiando la difesa e la sicurezza aveva rifiutato per lungo tempo di riconoscere l’Olp, linea politica che costò al Paese un lungo isolamento internazionale. Il fattore religioso “messianico” accostato a uno politico di “potenza” fanno però apparire la politica beginiana come un fanatismo religioso applicato alla realtà politica. La sinistra israeliana dal canto suo cominciò a pensare a un possibile riconoscimento dell’Olp solo quando vide aprirsi spiragli concreti per una pace definitiva con i palestinesi. Anche Amadè riconosceva la tensione esistente tra due visioni politiche fondate su diverse concezioni dell’eredità culturale ebraica. In realtà il mito della Grande Israele non era mai stato proprio di alcun programma politico ed era quasi un tabù nelle discussioni ufficiali alla Knesset. Tuttavia il tallone di Achille della destra israeliana erano sempre stati gli insediamenti ebraici nei territori della Cisgiordania. Sin dal 1967 quelle aree geografiche furono definite “occupate” e gli israeliani che vi si stanziarono progressivamente venivano indicati col termine di “coloni”. Ebbene la maggioranza dei coloni scelsero di trasferirsi in quelle zone in base a motivazioni religiose, ma c’era anche chi fece questa scelta per convenienza economica.
L’allarme per la crescita dell’estremismo nazionalistico religioso fu reale in quegli anni. Meir Kahane e il suo movimento politico erano considerati in Israele stessa razzisti e xenofobi e quando ottennero alle elezioni del 1984 un seggio alla Knesset, fu scandalo per tutto l’establishment politico. Kahane aveva fatto proseliti soprattutto tra le frange più disagiate della popolazione ebraica. Kahane presentò al parlamento due disegni di legge gravemente discriminatori nei confronti degli arabi i quali furono paragonati da un deputato alle Leggi di Norimberga. La Knesset rifiutò di discuterle estromettendole dall’agenda politica e nel luglio del 1985 votò un emendamento in base al quale “chiunque si fosse macchiato di atti di razzismo o avesse perseguito finalità razziste non avrebbe potuto essere eletto”8. Kahane fu così estromesso dalle elezioni del 1988. L’eco di qualunque episodio riguardasse azioni o intimidazioni da parte dei coloni ebrei contro i palestinesi dei territori era fortissimo nella stampa della sinistra italiana che aveva seguito il fenomeno Kahane con attenzione. Maturava così progressivamente la convinzione che la maggioranza degli israeliani abitanti degli insediamenti fossero razzisti e xenofobi oltre ad essere stati ritenuti a lungo un’ arma irrinunciabile della destra per raggiungere l’obbiettivo della Grande Israele.
In piena intifada, nel 1990, il fenomeno dell’ultima ondata migratoria degli ebrei sovietici e di quelli provenienti dall’Est Europa suscitava particolare preoccupazione a sinistra. Molti sono gli articoli di cronaca dedicati agli emigranti, i quali transitarono nei litorali laziali prima di raggiungere le destinazioni definitive (molti tra gli ex cittadini sovietici preferirono gli Stati Uniti a Israele). Nell’ Unità come nel Manifesto era stato immediato e istintivo il sospetto che l’accoglienza di questi nuovi immigrati facesse il gioco strategico della destra israeliana. Si ipotizzava che tutti sarebbero stati mandati a rinforzare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania per scopi demografici di lungo termine. Secondo uno degli articoli più esplicativi riferito a questi episodi si sostiene anche che tutto ciò avrebbe avuto l’effetto di rinfocolare la cultura dell’odio imperante nei territori e non solo. La “cultura dell’odio”, scriveva Marcella Emiliani, “non è la stessa che divideva i coloni ebrei e gli arabi nel secondo dopoguerra”:
L’odio che oggi in Israele si irradia in metastasi paradossalmente è frutto invece di una realtà di integrazione, ottenuta molto spesso con la forza, cui la politica non sa dare forma pacifica e civile (…). La politica dicevamo. Quella israeliana, che detta condizioni, si è da tempo consumata, si è ridotta cioè a un puro e sterile esercizio di tatticismi che hanno portato il paese alla paralisi. (…) E’ soprattutto questo esaurimento della politica israeliana ad essere alla base dei sussulti di odio, degli estremismi e del razzismo puro e semplice di oggi. (…) Non è forse vero che (oltre a garantire una “semi-immunità agli estremisti ebrei”), nonostante l’impasse per non dire paralisi della vita politica, l’establishment israeliano sta giocando nei territori occupati, a danno dei palestinesi, quella carta delicatissima che è l’accoglienza dei profughi ebrei russi e dell’Est europeo? (…) In piena intifada, l’immigrazione ebraica dall’est europeo, deve essere sembrata ai governanti di Tel Aviv come la manna nel deserto: quell’iniezione di sangue ebraico necessario a fugare lo spettro dell’esplosione demografica araba che potrebbe snaturare il carattere appunto ebraico dello Stato israeliano. Il tutto senza calcolare gli effetti che potrebbe avere tutto questo sull’elemento palestinese della popolazione9.
E concludeva: (L’Intifada) “ con questa iniezione di ebraicità nei territori occupati è stata spinta alla reazione più estremista. (…) Già, perché a questo punto potremo anche chiederci quanto sia stato e sia funzionale l’odio e il razzismo contro gli arabi in Israele per compattare in una sola tutte le anime del ritorno alla Terra promessa”, gli ebrei ashkenaziti, i sefarditi, gli americani, i falanscià etiopi e oggi quelli dell’Est europeo. “Un discorso di razza, di cultura, di religione e di classe che oggi produce un paradosso storico peraltro non inedito”.
Dal momento che l’Intifada avrebbe di lì a poco raggiunto risultati politici sorprendenti (come preannunciava la dichiarazione di indipendenza unilaterale proclamata da Arafat ad Algeri nel novembre del 1988) si profilava la concreta possibilità di realizzazione di due Stati sovrani indipendenti e contigui per i due popoli. La “terra”, ossia l’oggetto di una reale spartizione della sovranità territoriale, era il punto fondamentale del problema. La sinistra in vista di questa svolta si faceva sostenitrice della soluzione sintetizzata dallo slogan “due popoli, due stati”. L’attenzione era tuttavia già da molto tempo focalizzata sulla difficile realtà di convivenza tra israeliani e palestinesi nei territori. Il livello di attenzione sul crescente estremismo religioso dei coloni degli insediamenti non decrebbe dopo la scissione del PCI, né dopo la vittoria dei laburisti israeliani nel 1992 e l’avvio definitivo del processo di pace. La sinistra italiana continuò a condannare fermamente la politica degli insediamenti e a chiedere il ritiro immediato da quei territori.
In un commento ai risultati elettorali israeliani del 1992 si legge: “La vittoria laburista…apre una porta…nel muro dell’oltranzismo israeliano”. Ytzhak Rabin aveva vinto le elezioni, nonostante il suo “inquietante curriculum”, diceva Maurizio Matteuzzi, motivando così le sue affermazioni:
…Il soffio di ottimismo che ci si deve imporre dopo il voto di martedì in Israele non viene tanto né dalla persona di Ytzhak Rabin né dal palmarès del partito laburista. (…) Rabin si è presentato…come il continuatore autentico del migliore Likud, quello di Begin che firmò la pace di Camp David (contro l’astensione di Shamir e l’opposizione di Sharon); l’uomo capace di riconquistare la fiducia all’America e sbloccare il mega prestito di dieci miliardi di dollari; il generale duro che ha liberato Gerusalemme nel ’67 e ha spezzato le braccia dei palestinesi che tiravano le pietre dell’intifada vent’anni dopo. Domenica un falco è caduto in Israele, il vecchio terrorista della banda Stern che con la sua intransigenza fondamentalista, l’insostenibile politica della colonizzazione selvaggia, la demagogia populista di un’economia fondata ormai solo sulla carità ( e il senso di colpa) internazionale aveva portato il paese a un isolamento senza precedenti e, all’interno, sull’orlo della guerra civile. Isolamento che Rabin, con l’impegno a congelare gli insediamenti, la disponibilità a parlare con i palestinesi (quali?), i più o meno vaghi accenni a concedere l’autonomia ai territori occupati (ancora all’insegna di Begin e Camp David) e perfino a un qualche futuro e marginale ritiro, potrà rompere. L’uscita di scena di Shamir riveste un carattere simbolico e politico che non può essere trascurato. Un quadro politico congelato da tre lustri si è sbloccato. Un fondamentalismo ideologico che non aveva nulla da invidiare a quello sciita è stato battuto da un voto – prima ancora che da un uomo – pragmatico. Spetta ora a Rabin, qualunque sia il governo che vorrà o potrà mettere in piedi, disinnescare il pericolo, forse lontano ma non irreale, di una guerra civile contro la minoranza fanatizzata dei 250.000 coloni lanciati nei territori occupati.10
Ci si aspettava da Rabin una secca e decisa svolta a quella che era stata definita nelle pagine dell’ Unità “l’opera di snazionalizzazione della Cisgiordania occupata” o “campagna di ebraicizzazione” avviata dalle destre israeliane11. Sempre nelle pagine dell’ Unità del 1992 si individuava la sfida che spettava ai negoziatori degli accordi di pace per il contenimento delle spinte radicali interne ad entrambe le parti negoziali: Umberto de Giovannangeli scrisse che Hamas, movimento radicale islamico, aveva potuto opporsi al negoziato proponendosi come alternativa all’Olp “forte del massiccio sostegno, economico e militare, di Iran e Siria, ma forte anche della libertà goduta per lungo tempo da parte delle autorità israeliane”. Accostava poi il radicalismo islamico a quello ebraico:
La sacralità della terra: in questo richiamo ad una ragione superiore e insindacabile che motiva la Jihad, Hamas usa lo stesso linguaggio degli oltranzisti israeliani, dei coloni in armi per i quali nessuna zolla di Eretz Israel (la Terra d’Israele) può essere oggetto di scambio. Da qui il comune interesse a chiudere ogni spazio al dialogo. A colpi di mitra, nel nome del Corano o della Torah12.
Nel settembre del 1993, quando Israele riconobbe l’OLP, Valentino Parlato commentò sul Manifesto:
La Terra promessa comincia a diventare realtà per i palestinesi, fino a ora condannati alla diaspora, alla violenza e alla soggezione, anche degli stati arabi. (…) Il reciproco riconoscimento cambia la natura di entrambi i protagonisti.
Israele, proseguiva, non sarebbe stata più una “enclave assediata e violenta, ma una libera comunità-stato nella terra dei padri”. L’ accordo possedeva una “portata profonda, di principio e di civiltà” con implicazioni “più profonde e aggrovigliate di quanto il materialismo storico possa spiegare”:
Quasi che nella Terra promessa la ragione abbia vinto sulla religione, o l’abbia liberata dalle sue storiche angustie. Pensare a un illuminismo dell’intifada o alle astuzie della storia sarebbe sbagliato, anche se indubbio ci pare un illuminismo di Arafat e Rabin (…) Ieri in Palestina si è compiuto un fatto irreversibile13.
Fu infatti irreversibile la portata storica degli accordi di Oslo: per i palestinesi significò il riconoscimento internazionale della loro causa, una vittoria diplomatica di grande peso che portò al rientro di Arafat nei territori nel 1994 e alla sperimentazione di una autonomia amministrativa palestinese su città e territori della Cisgiordania; per Israele significò una scelta di riconoscimento, dialogo e negoziazione diretta con la controparte palestinese rappresentata dall’Olp, organizzazione politica originalmente nata con propositi distruttivi verso lo Stato d’Israele e per questo fino ad allora ritenuta una inaffidabile interlocutrice dalla classe politica israeliana; fu per l’opinione europea di sinistra un motivo di rivalutazione complessiva della politica israeliana.
Una rivalutazione faticosa e di difficile recupero poiché non di rado le considerazioni sulle caratteristiche del radicalismo religioso di particolari formazioni o movimenti politici furono estese con facilità tanto ai governi e alle loro politiche quanto all’intera società senza specificazioni. La sinistra non si accorse, se non all’inizio del processo di pace , di aver commesso lo stesso errore che rimproverava ai dirigenti israeliani di commettere nei confronti dell’OLP. Un errore politico di valutazione. L’OLP era un movimento che tollerava al suo interno gruppi di estremisti facinorosi ma Israele non poteva considerarlo un gruppo terroristico tout court. Israele da parte sua non avrebbe dovuto essere identificato, come invece spesso avvenne, con le componenti estremiste esistenti al suo interno. Questa posizione era riuscita a pregiudicare l’attendibilità delle scelte israeliane come a oscurare l’ immagine dell’ Israele democratico. Israele veniva definito uno Stato “teocratico” e la sua politica spiegata col riferimento all’incidenza del fondamentalismo ideologico nelle scelte di tutta una classe politica. Le invettive più violente prendevano di mira principalmente il governo Begin e la destra sionista in generale e venivano frequentemente presentate in linea di continuità con le scelte storiche compiute in precedenza anche da governi di sinistra. Così il cambio di rotta previsto con la vittoria di Rabin suscitò molte riserve sulla sua capacità di controllo della situazione ereditata dalle destre. Dopotutto Rabin dichiarava di voler continuare a combattere il terrorismo e durante l’intifada aveva appoggiato le misure repressive del governo. Allo stesso tempo Rabin parlava di concessione di autonomia ai palestinesi richiamandosi agli accordi firmati da Begin e Sadat nel ’79. Nei primi anni ‘80 la sinistra italiana aveva avversato con decisione gli accordi di Camp David giudicandoli incompiuti per il fatto di non aver dato attuazione alla clausola che prevedeva una autonomia transitoria per i palestinesi prima della creazione di un loro Stato in Cisgiordania. Nel 1982, quando Israele completò il ritiro dal Sinai in ottemperanza al trattato israelo-egiziano, si accusava Begin di sfruttare l’occasione per legittimare l’ annessione della Cisgiordania, dato che quella di Gerusalemme Est e del Golan erano state confermate tra il 1980 e il 1981. Il Manifesto titolava “Begin trasloca il Sinai in Cisgiordania” il commento riferito a questi fatti e stigmatizzava il significato simbolico della pace definitiva con l’Egitto:
(…) Tanto più forti e patriottiche sono le proteste delle colonie del Sinai, tanto più la politica annessionistica di Begin, con la creazione di nuovi insediamenti in Cisgiordania, appare all’opinione pubblica israeliana come un gesto moderato e nello spirito di pace.14
I deputati del partito religioso Gush Emunim si erano opposti con decisione all’evacuazione della cittadina di Yamit, insediamento ebraico a nord del Sinai, la quale fu poi rasa al suolo prima che fosse completato il ritiro il 25 aprile dell’ ‘82. Yamit era stata definita “frutto velenoso dello spirito annessionistico e coloniale di Israele”15. In somma, la politica di Begin veniva considerata di segno contrario allo spirito di pace perché scavalcava di fatto il riconoscimento dell’OLP e la prospettiva di una autonomia territoriale per i palestinesi. Scriveva Roberto Livi:
Per Begin – ma il premier rappresenta, nel bene o nel male, la continuazione della leadership israeliana da Ben Gurion in poi – l’accordo di Camp David o meglio il paragrafo dell’autonomia palestinese, si applica alla popolazione e non ai territori occupati. Questi ultimi, come prescrive la teoria sionista, devono restare parte integrante di Israele. La popolazione può crearsi la sua autonomia dove vuole, meglio se in Giordania o in Kuwait 16.
Fu difficile per la sinistra ridefinire l’essenza o la “natura” israeliana alla luce dei cambiamenti improvvisi dello scenario mediorientale negli anni novanta. La Cisgiodania non venne annessa da Israele, come dai peggiori pronostici avanzati all’indomani della “fine di Camp David”, ma venne comunque amministrata e controllata per lungo tempo dagli israeliani. Durante questo periodo l’ “occupazione” dei territori oltre il confine della linea verde fu trattata nelle cronache come una vera e propria invasione coloniale. La presenza israeliana nei territori veniva paragonata alla politica “dei Bantustan e dell’Apartheid del Sudafrica verso la maggioranza nera”. I palestinesi venivano descritti come i nuovi “schiavi”, i neri d’ Israele. Così anche lo sfruttamento delle risorse naturali nonché il commercio e gli investimenti sarebbero stati regolati da dei “diktat” di carattere coloniale da parte israeliana17.
La prima Intifada, poi, era assimilata alla rivolta di Soweto in Sudafrica. Maurizio Matteuzzi si chiedeva: “Perché la santa rivolta palestinese di questo Natale 1987 esplode proprio a Gaza? Perché è a Gaza dove finzioni e velleità israeliane di un’occupazione illuminata saltano. Gaza è il posto in cui Israele e Sudafrica si toccano”. Il giornalista del Manifesto tentava di dare un senso alla contagiosa rivolta palestinese esplosa a Gaza dicembre 1987. Gaza – scriveva – 30 Km quadrati, 650 mila palestinesi, 9 campi profughi, “è un enorme ribollente serbatoio di mano d’opera non qualificata e a buon mercato”. I territori che gli israeliani definivano “pudicamente amministrati”, a suo giudizio, avrebbero dovuto chiamarsi “ingoiati”: il vero problema erano gli insediamenti dei “coloni oltranzisti e fanatici” che materializzavano le intenzioni annessionistiche israeliane. Egli si chiedeva: “che cosa resterà mai da scambiare, in una futura – ipotetica – trattativa di pace?”. Non azzardando la risposta si limitava a constatare: “il martirio del popolo palestinese è destinato a continuare a lungo”.
Matteuzzi rifiutava l’interpretazione israeliana dell’Intifada anche se gli sembrava “ovvio e giusto” che “i miserabili Shamir e Rabin parlino di manipolazioni dei giovani palestinesi e di scacco delle organizzazioni terroristiche”. Ma – diceva – “non è Arafat a far scendere in strada i ragazzi con la Kefiah : è Israele. (…) Israele, che si vede ed è visto come la nicchia della democrazia incastonata nel mare barbaro del mondo arabo, ne esce a pezzi”. E questo per le sue continue minacce di usare la “mano dura” e le terribili decisioni della sua leadership : “deportazioni, espulsioni, arresti amministrativi, minamento delle case dei sospetti, uso sistematico della tortura (legalizzato perfino da una recente sentenza della Corte Suprema), filo spinato intorno ai campi profughi”. Il significato dell’uso della mano dura sarebbe stato questa “ logica perversa dell’occupazione, e della colonizzazione scientifica e selvaggia insieme”. I palestinesi, dunque, erano stati spinti “ineluttabilmente alla rivolta”.
Matteuzzi concludeva: “Per Israele, che ha chiuso ogni prospettiva politica stroncando scientificamente le ripetute aperture politiche di Arafat e tenendo sotto perenne ricatto l’inossidabile alleato americano, il Sudafrica è vicino”18. Questo tipo di parallelo col Sudafrica si diffondeva molto velocemente tra l’opinione pubblica di sinistra grazie al suo immenso potere persuasivo e semplificatore. Tutto veniva presentato in una perfetta cornice logica: c’era una occupazione indebita, uno sfruttamento di uomini e risorse, la repressione delle rivolte, un razzismo di fondo e infine lo spirito coloniale e annessionistico. Difficile dire se all’indomani di Oslo e del reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi la “natura” dei protagonisti, come sostenne Matteuzzi, sarebbe cambiata automaticamente nel senso comune degli spettatori del conflitto.
Negli anni novanta, come già anticipato, non venne meno né l’attenzione per le questioni territoriali e nemmeno il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese. Ma nell’ Unità cambiarono sensibilmente i toni e i contenuti delle argomentazioni. La nuova sinistra democratica cominciava ad accorgersi delle difficoltà di entrambe le parti del conflitto con le rispettive componenti estremistiche. Riguardo alla prima Intifadah Massimo Boffa scrisse:
(L’Intifadah) “che dura senza interruzione dal 1987, ha distrutto alcuni dei miti sui quali per un ventennio si era potuta appoggiare la falsa coscienza di una parte della società israeliana. Si è dissolta l’illusione di una occupazione liberale…e anche l’altra tenace illusione: l’idea che i nuovi confini ereditati dalla guerra dei sei giorni si sarebbero potuti, col tempo, normalizzare. (…) In realtà la rivolta delle pietre ha ridisegnato ovunque quella linea verde , … e quei lembi di terra, i quali, per evitare oggettivazioni controverse sono da tutti chiamati territori (occupati, amministrati, liberati?), restano un corpo estraneo.19
Per Boffa quella dei territori era “la questione principale attorno alla quale ruota da un ventennio tutta la politica israeliana; e si tratta di un dibattito lacerante, perché investe i valori di fondo che sono alla base dello Stato ebraico”. Egli riconosceva che i miti propagandati dai movimenti più estremisti, come quello della Grande Israele, erano sempre rimasti “temi tabù a cui nessuno ricorre veramente negli ambienti rispettabili della politica israeliana”. E aggiungeva: “L’elemento chiave intorno al quale ruota tutto il dibattito sulla questione palestinese è un altro: quello della sicurezza (…) su cui fa leva il Likud per giustificare la propria intransigenza e la difesa dello status quo”. Secondo la nuova linea politica di equidistanza dalle parti, ora anche nel movimento palestinese si riuscivano a vedere le tensioni suscitate dalle componenti estremistiche:
Su questo sfondo, è in corso da tempo una partita a quattro, in cui si muovono estremisti e moderati dell’uno e dell’altro campo. Il circolo che ne risulta è di quelli viziosi, poiché l’intransigenza degli uni alimenta l’intransigenza degli altri, mentre il partito del compromesso stenta ad aprirsi un varco.20
In quegli anni il crescente estremismo politico rimaneva un dato inequivocabile. Dopo il primo passo formale nei confronti dell’avvio del negoziato, Hamas e Hetzbollah scatenarono una lunga scia di sanguinosi attentati in Israele e ai confini col Libano. Si acuirono nei militanti dei movimenti dell’ estrema destra israeliana i sentimenti di opposizione alla politica laburista e si moltiplicarono le manifestazioni pubbliche contro il suo leader. Dalle mani di un estremista israeliano partì il colpo che uccise Ytzhak Rabin nel 1995.
1 Gianni Baget Bozzo, art. cit. Cap.2 p.12
2 Marco d’Eramo, art.cit. Cap.2 p.16
3 Filippo Gentiloni, “La Terra d’Israele”, in il Manifesto, 02 febbraio 1986, prima pagina.
4 Shmuel Hugo Bergmann, nato a Praga e amico di infanzia di Franz Kafka, iscritto a Brit Shalom (un’organizzazione che si batteva per la convivenza pacifica tra israeliani e arabi), annotò nel suo diario, che teneva in tedesco, il suo pensiero: Fin dai tempi dei tempi, nel giudaismo si sono contrapposte due tendenze. Una è isolazionista, odia lo straniero, alimenta il complesso di Amalec e non perde occasione per ammonire “Ricorda ciò che ti hanno fatto”. Ma c’è anche l’altra, che richiama il comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Questo è il giudaismo che prega “Fa che io dimentichi Amalec”, un giudaismo di amore e di perdono. Tom Segev commenta così la citazione riportata nel suo libro: “E’ questa la chiave per capire la divisione di fondo che caratterizza la politica israeliana, tesa fra l’isolazionismo nazionalistico e l’apertura umanistica. In un’altra pagina del diario Bergmann scrive semplicemente: Ci sono due popoli in Israele”.
Tom Segev, op.cit., pp. 333-334.
5 Emilio Sarzi Amadè, “Stato e Scritture”, in l’Unità, 01 settembre 1982, p.13
6 Emilio Sarzi Amadè, “Il prezzo di Israele per la sua guerra”, in l’Unità, 28 agosto 1982, p.13.
Questo articolo aveva questo incipit: Ecco dunque Israele, lo Stato imperiale invischiato nella sua guerra…; lo Stato democratico privo di una Costituzione; fondato dai perseguitati dei pogrom (la caccia all’ebreo) dell’ Europa centrale e orientale e dai superstiti dell’Olocausto imposto dal nazismo, e responsabile ora dei massacri contro gli arabi di Palestina;…nuova patria di cento nazionalità diverse, e nel suo complesso incapace di comprendere le ragioni della minoranza araba;…laico nelle intelligenze ma sottoposto al controllo…di una ristretta minoranza teocratica e bigotta. (…)Un blocco monolitico da esorcizzare, dunque, poiché questa è l’immagine che Israele proietta nel mondo col costante fragore delle armi e le avventure espansionistiche?
7 E.Sarsi Amadè, Le contraddizioni della società israeliana/2; “Una bomba a tempo, sotto lo Stato la questione religiosa”, in l’Unità 02 novembre 1982, p.7
8 “Approvò anche un emendamento che metteva fuori legge chiunque incitasse al razzismo, negasse il diritto all’esistenza di Israele o avesse contatti con l’OLP”.
Tom Segev, op.cit., p.374.
9 Marcella Emiliani, “Nella Terra promessa regna la cultura dell’odio”, in l’Unità, 22 maggio 1990, p.3
10 Maurizio Matteuzzi, “La porta stretta di Rabin”, in il Manifesto, 25 giugno 1992, editoriale.
11 Ennio Polito, art.cit., Cap.1 p. 11.
12 Umberto de Giovannangeli, “Non si baratta la nostra Terra sacra. La voce dei fondamentalisti piace all’Iran”, in l’Unità, 18 dicembre 1992, p.11
13 Valentino Parlato, “Agli uomini di buona volontà”, in il Manifesto, 10 settembre 1993, editoriale.
14 Marco d’Eramo, “Begin trasloca il Sinai in Cisgiordania”, in il Manifesto 12 marzo 1982, p.2
15 Marco d’Eramo, “Yamit, Sinai, Israele ha fatto del giardino un deserto”, in il Manifesto 28 aprile 1982, p.2
16 Roberto Livi, “Israele lascia il Sinai.Non distrugge solo case. E’ la fine di Camp David”, in il Manifesto, 22 aprile 1982, speciale.
17 Maurizio Matteuzzi, “La Cisgiordania è il Bantusan d’Israele”, in Il Manifesto, 07 maggio 1982, p.3
18 Maurizio Matteuzzi, “Gaza, la Soweto di Israele”, in il Manifesto, 23 dicembre 1987, prima pagina.
19 Massimo Boffa, “Il paradosso sionista” , in l’Unità, 14 gennaio 1991, p.19
20 Ibidem.