Se ci venisse chiesto qual è il versetto più triste della Torà potremmo pensare alla Parashà di Vayetze, dove è scritto che “Il Signore vide che Lea non era amata”, oppure dove è scritto che “Rachel era sterile”. Sia la mancanza di amore che l’infertilità sono in effetti condizioni umane molto tristi. Altri potrebbero citare i versetti nelle Parashot di Bechukotai e di Ki Tavo: “Volgerò la Mia faccia contro di te… i tuoi nemici ti domineranno;” “Mangerai la tua discendenza, la carne dei tuoi figli e delle tue figlie”. Per queste frasi, in realtà, sembrano più appropriati gli aggettivi “spaventoso” o “terribile” piuttosto che “triste”.
Un versetto che forse riassume meglio il concetto e un insegnamento per affrontare le nostre vicissitudini è nella Parshà di Vaera: “Ma non vollero ascoltare Moshè a causa del loro spirito abbattuto e della dura fatica” (Shemot 6:9), Per contestualizzare questo versetto, dobbiamo ricordare che nella Parashà della scorsa settimana leggiamo della prima volta che Moshè annunciò che la redenzione era vicina. Il popolo era convinto, ci credevano. Si fidavano di Moshè, La Parashà di questa settimana, di contro, inizia dopo che gli ebrei hanno conosciuto un’amara delusione. Moshè era intervenuto presso il Faraone, ma il suo intervento fallì e la reazione del Faraone fu un inasprimento delle condizioni. Dopo questa disillusione, le eloquenti promesse con cui inizia la Parashà di questa settimana suscitano incredulità e disperazione, il risultato é quello che viene definito nella Torà kotzer ruach, uno spirito abbattuto, e avodà kashà, una dura fatica. La disperazione è forse la più triste delle emozioni umane, soprattutto quando segue l’eccitazione della speranza. Il momento in cui le speranze vengono deluse è forse il momento più triste di tutti
In qualche modo però questo versetto ci dà l’opportunità di imparare lezioni importanti sulla speranza e sul suo opposto, la disperazione. Per farlo dobbiamo esaminare attentamente queste due espressioni, kotzer ruach e avodà kashà. Rashi intende kotzer ruach come “mancanza di respiro”, il risultato di un intenso lavoro fisico. Ci si può aspettare che un uomo che è senza fiato possa sperare? Ovviamente no, perchè é così preso dal panico che la speranza in un futuro migliore è totalmente al di là delle sue capacità. Lo Sforno, preferisce tradurre questo termine come “spirito”. Quello che priva una persona della speranza è la “mancanza di spirito”, l’assenza di uno “spirito di fede”. Gli ebrei persero la fede in Moshè. si sentivano delusi perché ai loro occhi non era riuscito a fornire loro una soluzione immediata alla loro situazione. In tal modo persero la fede nel D-o di cui Moshè era ai loro occhi il rappresentante. Senza fede, sostiene Sforno, la speranza è impossibile. Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, comprende il nostro versetto in modo diverso. Per lui il Faraone era esperto per eccellenza dei processi di disperazione e scoraggiamento. Sapeva come schiacciare la speranza. Per tenere l’uomo lontano dalla speranza bisogna tenerlo così occupato con ogni tipo di compiti da non concedere tempo per altro. Così Rav Luzzatto nel suo Mesillat Yesharim: “Questo è, infatti, uno degli astuti artifici dello yetzer (inclinazione), che impone sempre agli uomini compiti così faticosi che non hanno più tempo per notare come stanno andando alla deriva… Questa ingegnosità è un po’ come quella del Faraone, che comandò: “Sia imposto un lavoro più pesante agli uomini…” Poiché lo scopo del Faraone non era solo quello di impedire agli Ebrei di avere il tempo libero di fare piani contro di lui, ma di sottoporli a un lavoro incessante, di privarli anche della possibilità di riflettere.” Senza questa opportunità – con il kotzer ruach¸ “mancanza di tempo per riflettere” – la speranza è fuori questione. Si è troppo occupati perfino per sperare.
Un’altra intuizione sul possibile significato di kotzer ruach si trova in una fonte un po’ insolita. Esiste una raccolta di brevi omelie, scritte da Rabbi Kalonymos Kalman Shapira, Rebbe di Piacezna nella Polonia pre-Olocausto. In queste omelie, pronunciate nei primi anni del Ghetto di Varsavia, scrive che in condizioni di avodà kashà, di fatica molto dura, si perde lo “spirito della vita”. Rav Shapira conosceva fin troppo bene il significato del duro lavoro, schiavo com’era in quell’orribile ghetto, e sapeva come lottavano tutti per fare la volontà di D-o nonostante le tremende difficoltà. Fu testimone dei tentativi di aiutarsi a vicenda, di mantenere la fede in D-o e di eseguire qualunque mitzvà potessero, ma osservava come fosse difficile raccogliere lo “spirito di vita”. Kotzer ruach per lui significava l’assenza di uno “spirito di vitalità”. Come gli ebrei del ghetto di Varsavia, anche gli ebrei dell’antico Egitto soffrivano di kotzer ruach. Non potevano rispondere a Moshè con uno “spirito di vitalità”. Nessuna vitalità, nessuna vita, nessuna speranza.
Questi commentatori vissero a secoli di distanza l’uno dall’altro e in circostanze molto diverse, ma tutti concordano che ci sono diversi fattori nella vita che rendono difficile la speranza. Alcuni di questi fattori sono crudeli e insoliti, come esemplificato dalla schiavitù in Egitto e della Germania nazista, ma alcuni sono comuni oggi. Sono il nostro stile di vita frenetico, la nostra routine lavorativa. Siamo consumati dal “tran tran”. Può essere anche un periodo difficile, dato da problemi personali di famiglia, di salute o altro. La cosa importante è evitare di perdere la speranza, di vedere la luce anche nel momento più buio. Questa è una delle caratteristiche del popolo ebraico, una delle caratteristiche che ne hanno permesso la sopravvivenza.