Giulio Meotti
Il “rabbino più amato” e il “rabbino buono”. E la sua bella faccia, grave e gioiosa, in prima pagina. Ma questo tipo di facile bontà e di unanime accondiscendenza che adesso domina le eulogie, era del tutto estranea a Elio Toaff. Per molte ragioni, il rabbino di Roma deluse i benpensanti. Ironico e combattivo, partigiano uscito vivo da una fossa comune nazista, livornese figlio di ebrei spagnoli cacciati dall’Inquisizione, Toaff era solito dire che due avvenimenti avevano segnato la sua vita: “Le leggi razziali e la creazione d’Israele”.
Dalla parte di Israele Toaff lo fu fin da quando, dopo la Liberazione, a Venezia organizzò l’invio di armi all’Haganà, l’esercito ebraico. E anche quando, durante la guerra del Libano del 2006, in Italia si pubblicavano manifesti sui giornali che equiparavano Tsahal a Marzabotto, Toaff si smarcò dai soliti imboscati e attaccò duro, nonostante i novant’anni: “Una iniziativa antisemita che falsa la storia”.
Non diede mai il fianco a falsi irenismi religiosi, e a domanda su cosa fosse per lui l’ebraismo, Toaff rispondeva: “Noi ebrei vogliamo riportare Dio in terra e non l’uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, vogliamo che Dio torni a regnare in terra”. Non proprio una organizzazione non governativa di stampo caritatevole. Aveva una vocazione da pacificatore, che è una cosa diversa dal dialogo. Toaff fu sempre il più misurato nel giudizio su Pio XII, mentre da ogni parte, dagli storici laici come da molti ebrei e da tanti cattolici, si faceva terra bruciata attorno al pontefice. E tenne una posizione di pragmatismo anche durante il processo a Eric Priebke (condanna sì, carcere no). Contro le molte richieste di boicottaggio che arrivarono dagli indignati, Toaff partecipò alla prolusione dell’anno accademico alla Sapienza affidata nel 1992 a Renzo de Felice, la nemesi della storiografia revisionista, a cui pure Toaff non risparmiò critiche sulle Leggi razziali.
Fu durissimo con la galassia sindacale che faceva capo alla Cgil di Luciano Lama, che aveva chiesto agli ebrei romani di “dissociarsi” da Israele. Toaff lo attaccò dopo lo sciagurato gesto di alcun esponenti della sinistra di lasciare una bara di cartone davanti alla Sinagoga di Roma, in coda a un corteo della Triplice. Un momento orribile, perché avvenne a breve distanza dall’assassinio del bambino ebreo Stefano Taché per lo scoppio di una bomba palestinese il 9 ottobre 1982 nei pressi del Tempio sul Lungotevere, in occasione del giorno di Simchà Torah che conclude il ciclo annuale della lettura del Pentateuco e lo ricomincia. Non è vero che fu opera di una sparuta minoranza e Toaff attaccò i sindacalisti “ben istruiti”, parlò di un’“indegna esplosione di antisemitismo” che per lui rievocava il “lontano e infausto periodo che va dal 1939 al 1944”.
Toaff fu l’artefice della grande conciliazione con la chiesa cattolica, il rabbino che aprì la porta della sinagoga a Giovanni Paolo II in nome delle comuni verità bibliche. Ma questo non gli impedì di assumersi una certa responsabilità nell’attaccare la stampa cattolica che spargeva menzogne e odio su Israele. Così, nel 1988, Toaff accusò il Vaticano di condurre “una politica antisemita attraverso i mass media cattolici che demonizzano Israele e il sionismo”. Toaff prese di mira giornali cattolici come “Chiesa viva”, “Segno”, il settimanale ufficiale dell’Azione Cattolica (“Quello che Israele sta perpetrando nei confronti del popolo palestinese ha un solo nome: genocidio”, si scriveva allora), “Famiglia Cristiana” e “Jesus”, il mensile delle Edizioni Paoline, tutti accusati da Toaff di “antisemitismo di antica matrice religiosa, razzista, fascista che demonizza Israele, il sionismo, l’ebraismo e banalizza la più grande tragedia di questo secolo paragonandola a pur gravi manifestazioni di violenza israeliane. Peggio, si cerca di dimostrare che le vittime dell’Olocausto non erano poi cosi innocenti”.
O come quando attaccò il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, per aver ricevuto Yasser Arafat nella sua prima visita in Italia, mentre il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini si era rifiutato di incontrare il leader dell’Olp e i segretari dei tre principali partiti (Dc, Pci e Psi) lo avevano accolto con gli onori di un capo di governo. Bisogna ricordare che all’epoca il leader palestinese e i suoi seguaci avevano versato il sangue di molti ebrei, in Europa come in medio oriente. Le sue azioni avevano inorridito il mondo e Arafat arrivò in Italia in cerca di legittimazione in un momento in cui l’Olp perseguiva la distruzione di tutta Israele. Nel 1982 Arafat non era né un premio Nobel per la Pace né un “presidente”. Era semplicemente un terrorista e Toaff lo sapeva. “Il carisma di Toaff fu poi evidente al funerale di Taché”, ci racconta Riccardo Pacifici, presidente della comunitá ebraica di Roma. “Pertini voleva partecipre ai funerali, Toaff era contrario e gli disse che non poteva garantire la sua incolumità tante erano l’emozione e la rabbia. Pertini venne al funerale e Toaff disse alla comunità che non ci dovevano essere contestazioni al presidente e che se ci fossero state si sarebbe dimesso. Parteciparono migliaia di persone ma nessuno fiató. Fu impressionante”.
Questo Matusalemme ha riportato in vita la comunità ebraica italiana nel Dopoguerra, quando il suo morale era a pezzi. Ha fatto la pace con le istituzioni politiche italiane e avviato il dialogo ebraico-cristiano. Ma quando c’è stato da fendere colpi ai nemici del popolo ebraico, non si è mai tirato indietro. Un gigante ebreo dal sorriso molto romano.
Il Foglio – 20 Aprile 2015