Durante lo Shabbat Chol HaMoed Sukkot leggiamo una sezione particolare della Torà, tratta dalla parashà di Ki Tissà. A prima vista può sembrare sorprendente: perché, nel pieno della gioia della Sukkà, ci confrontiamo con un passo che parla del peccato del vitello d’oro e del difficile dialogo tra Moshe e il Santo Benedetto Egli sia? In realtà proprio qui si nasconde il cuore spirituale di Sukkot. Dopo il peccato, le nubi di gloria che avvolgevano Israele si ritirarono; quando Moshe ottenne il perdono e ricevette le seconde tavole a Kippur, la Shekhinà tornò a posarsi sul popolo. Il Midrash insegna che questo avvenne il quindici di Tishrì, il giorno stesso in cui celebriamo Sukkot “Le nubi di gloria ritornarono su Israele”. La sukkà che oggi costruiamo è il simbolo di quel ritorno: non una semplice capanna, ma il segno tangibile della Presenza Divina che torna a coprirci dopo averci perdonato. In quella stessa parashà si trovano anche i tredici attributi della misericordia che abbiamo invocato tante volte nei giorni di Rosh Hashanà e Yom Kippur.
Ora, a Sukkot, non li recitiamo più con supplica, ma li viviamo nella realtà: abitiamo dentro la misericordia, seduti all’ombra della fede, accolti dalla sukkà come sotto il mantello della compassione Divina, perdendoci nell’abbraccio di D.o. I Maestri affermano che in Sukkot la Shekhinà dimora su Israele nella completezza del perdono, come luce che finalmente trova spazio dopo il turbine della teshuvà. Moshe, in “Ki Tissà”, riceve le seconde tavole: un nuovo patto, un nuovo inizio. Sukkot è questo: il sorriso di D-o dopo il pianto, la riconciliazione che segue la distanza, il ritorno all’amore dopo la prova. Non a caso, in quello stesso passo, Hashem comanda anche di celebrare le tre feste di pellegrinaggio – Pesach, Shavuot e Sukkot – quasi a dire che ogni gioia autentica nasce solo dopo aver saputo ricominciare. Leggiamo dunque “Ki Tissà” per ricordare che Sukkot non è soltanto la festa del raccolto, ma la festa del perdono compiuto e dell’alleanza rinnovata. Dopo la tempesta del vitello d’oro tornò il sole del perdono: Moshe salì, le nubi tornarono, la Shekhinà discese. E noi, sotto la sukkà, sediamo all’ombra di quell’amore ritrovato, avvolti dalle stesse nubi che un tempo abbracciarono i nostri padri nel deserto.
Rav Yoram Abargel ztz”l, nel suo Yimrè Noam, spiega che la vera grandezza di Sukkot è la trasformazione: dal giudizio alla misericordia, dal timore all’amore. Durante i Yamim Noraim, la teshuvà nasce dal timore, e allora gli avonot (peccati volontari) vengono trasformati in un livello inferiore, cioè in chata’im (errori involontari), gli stessi che vengono scrollati via dai nostri abiti e gettati nel mare come è scritto: “getterai nel mare tutti i loro Chattotam-peccati involontari”. È il senso del Tashlich: gettare nel mare il passato che pesa. Ma a Sukkot, chiamato Zemàn Simchatènu, la teshuvà diventa teshuvà dall’amore: non solo cancellazione della colpa, ma trasfigurazione. Gli avonot stessi si trasformano in zechuiot, in meriti. E per questo, proprio in Sukkot, il popolo versava acqua sull’altare nel Nisùch haMayim, accompagnato da canti e danze nella Simchat Beit haShoevà. Domanda Rav Yoram: perché versare proprio acqua, la stessa dove pochi giorni prima avevamo gettato via i peccati nel Tashlich? Risponde: perché ora quell’acqua non è più portatrice di colpa, ma di merito. È stata purificata dal cuore dell’uomo. La stessa acqua che prima conteneva le nostre mancanze, ora trabocca di zechuiot-meriti, di luce e di amore. Così l’acqua del Tashlich, simbolo di espiazione, diventa l’acqua della gioia del Beit HaShoevà: segno che il peccato è stato non solo cancellato, ma trasformato in vicinanza, in abbraccio, come l’acqua protettrice che circonda il feto. Ed è questo il segreto più profondo di Sukkot: che l’amore può trasformare perfino la caduta in elevazione, e il dolore in canto.
Shabbat Shalom
Marco Del Monte
