“Affinché sappiano le vostre generazioni che nelle sukkòt ho fatto risiedere i figli d’Israele nel farli uscire dalla terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”.
Rav Alfonso Arbib
In questo verso della parashà di Emòr, la Torà ci dice qual è il senso della mitzvà di risiedere nella sukkà. Noi dobbiamo risiedere nella sukkà affinché le nostre generazioni sappiano che Dio ha fatto risiedere il popolo ebraico nelle sukkòt all’uscita dell’Egitto. Ciò che dice la Torà è apparentemente molto semplice. La sukkà è un modo per ricordare un momento particolare della nostra storia. Ma è veramente così? Si tratta effettivamente del ricordo di un avvenimento storico? È lecito dubitarne. Sia perché ci viene richiesto qualcosa di più di un semplice ricordo (se voglio sapere com’è stata scoperta l’America è sufficiente leggere un libro sull’argomento, mentre la Torà ci chiede di rivivere l’avvenimento, cioè è come se chiedesse di “riscoprire l’America”), sia perché non è affatto sicuro che gli ebrei siano vissuti nelle sukkòt all’uscita dall’Egitto (secondo l’opinione di R. Akivà la sukkà è solo il simbolo delle nubi che circondavano e proteggevano il popolo ebraico nel deserto).
La Torà in effetti non ci chiede di ricordare un evento storico bensì di renderci conto, attraverso una mitzvà pratica, del senso che quell’evento può avere per noi oggi (“affinché sappiano le vostre generazioni”).
Ma cosa dobbiamo sapere? Di cosa dobbiamo renderci conto? In pratica, qual è il senso di questa mitzvà?
Secondo Rashbàm (R. Shemuel Ben Meìr, commentatore medievale, nipote di Rashì) la mitzvà della sukkà è legata al periodo dell’anno agricolo in cui cade la festa di Sukkòt. Il periodo è quello del raccolto. È un momento di grande successo per l’uomo. Ma è anche un momento molto pericoloso perché può dare all’uomo un senso di forza, di onnipotenza. Per questo motivo la Torà comanda di lasciare le proprie case stabili e piene di ogni bene per risiedere in una sukkà povera e instabile in modo che l’uomo si possa rendere conto della propria fragilità e della necessità della protezione di Dio.
R. Y. Haramà (commentatore del ’400) sostiene invece che, grazie alla mitzvà della sukkà, noi possiamo renderci conto della scarsa importanza dei beni materiali.
Infatti, la sukkà è povera, instabile e può essere molto piccola (le misure minime della sukkà sono: circa 70 cm di lunghezza e di larghezza e 1 metro di altezza). Ma la sukkà rappresenta anche la necessità di avere una vita spirituale, di avere il cuore e la mente rivolti verso l’alto. La sukkà infatti non è kashèr se non è sotto il cielo.
Quest’idea è ripresa e sviluppata da un commentatore contemporaneo R. E. Desler. Secondo R. Desler la mitzvà della sukkà è un grande dono fatto al popolo ebraico perché possa rendersi conto che la vita materiale di questo mondo è effimera ed instabile, che i suoi desideri e le sue aspirazioni materiali sono passeggeri.
La sukkà rappresenta l’annullamento dell’importanza del possesso. Questo porta la pace fra gli uomini (nella tefillà si parla di Sukkàt Shalòm, sukkà di pace) in quanto l’uomo non si sente più limitato e danneggiato dai successi materiali degli altri ma porta anche l’ebreo ad entrare (secondo quanto dice lo Zòhar) sotto l’ombra della Emunà. Il riconoscimento della verità ci porta cioè a demolire la parete che (secondo i chakhamìm) separa i nostri cuori dalla Shekhinà (la presenza di Dio che è dentro ciascuno di noi).
Vorrei concludere con l’opinione del Shem Mishemuèl (R. Shemuèl Misochachev).
Secondo il Shem Mishmuèl la sukkà rappresenta la vita del popolo ebraico nel deserto, una vita caratterizzata da miracoli eccezionali (il cibo dal cielo, il pozzo che li seguiva…) di cui gli ananè hakavòd (le nubi che seguivano il popolo e che sono simboleggiate dalla sukkà) sono l’esempio più evidente.
Questo tipo di vita finisce con l’entrata in Éretz Israel. Entrando nella Terra gli ebrei sono costretti a vivere una vita materiale (per esempio la coltivazione della terra) perché il compito del popolo ebraico non è quello di vivere in cielo ma di “trasformare la terra in cielo” (secondo il commento del Rebbe di Gur al verso 115, 16 dei Salmi: “Il cielo è il cielo riservato da Dio ma la terra l’ha data agli uomini”). La sukkà, ricordando il momento di eccezionale elevazione spirituale raggiunto dagli ebrei nel deserto, ha la funzione di ricordare al popolo ebraico che la sua missione in questo mondo è l’elevazione della materia, la “trasformazione della terra in cielo”.
Queste poche parole sul senso della sukkà vengono scritte in occasione di un Brit Milà.
Nel fare i miei migliori auguri ai genitori e alla famiglia Musani, vorrei ricordare che la Milà rappresenta (come la sukkà secondo il Shem Mishemuèl) la capacità del popolo ebraico di andare oltre la natura (la Milà avviene all’ottavo giorno e l’otto rappresenta il superamento del mondo naturale) di innalzare la materia.
Alfonso Arbib – 2 Ottobre 1995