R. ‘Azaryah Picho (1579-1647) fu Darshan della Schola Spagnola di Venezia: le sue Derashot sono raccolte nel libro Binah le-’Ittim. In esse si affrontano molti temi importanti, anche al di là dell’occasione contingente. Uno di questi è il rapporto fra Torah e scienza o piuttosto, nel linguaggio del tempo, fra Provvidenza e Natura. Mi soffermerò su due Derashot in particolare. La prima è il “Derush per il secondo giorno di Sukkot”, in cui approfondisce la ragione della Mitzwah della Sukkah. L’interrogativo di partenza è: perché la Sukkah, in quanto ricordo dei quarant’anni di permanenza dei nostri Padri nel deserto in dimore provvisorie, è prescritta proprio per l’autunno e non in primavera, quando uscire nelle capanne è “persino un piacere”? Egli esordisce citando la nota risposta del Tur (Orach Chayim, 625): ci rechiamo nella Sukkah al termine della bella stagione, quando tutti rientrano nelle loro case proprio per sottolineare che lo facciamo in ossequio al comando divino e non per il nostro gusto.
Il Darshan non si limita peraltro a riportare questa idea. Deve esistere – sostiene – una ragione più profonda. Le nostre feste autunnali sono istituite seguendo l’opinione talmudica per cui nel mese di Tishrì ha avuto luogo la creazione del mondo (R. Eli’ezer in Rosh ha-Shanah 11b): così, nel Mussaf di Rosh ha-Shanah abbiamo detto: היום הרת עולם, “oggi il mondo è nato”. Quel giorno sono state stabilite le leggi immutabili che regolano il corso naturale dell’universo. Ma c’è un punto fondamentale da sottolineare. La Torah afferma che il popolo ebraico viaggia su un “binario” dedicato. Non è soggetto agli andamenti stellari che sono assegnati agli altri popoli, bensì alla Divina Provvidenza. Va notato che qui astronomia e astrologia vengono sovrapposte nello spirito del tempo e chiamate con il termine generico תכונה tekhunah, che allude anche alla geometria, in quanto soggetta allo spazio e alla dimensione: su ciò torneremo.
Questa è la chiave che ci permettere di comprendere tutto. Per R. Picho la “debolezza” della conoscenza scientifica è concettuale. La ricerca dell’umano sapere, argomenta, procede a ritroso: prendendo atto degli effetti si risale alle cause, mai viceversa! Procedendo in questo modo lo scienziato è in grado di formulare solo semplici ipotesi relativamente alle cause stesse, ipotesi che nel tempo si prestano a essere contraddette una volta che si manifestino nuovi effetti, non emersi in precedenza. Da ciò scaturisce una conoscenza delle “vie di H.” necessariamente imperfetta e lacunosa. Peraltro è proprio questa la conoscenza della natura che i nostri Padri avevano acquisito durante la loro permanenza in Egitto, simbolo della nazioni del mondo e del progresso scientifico (si pensi a Eratostene) nel mondo antico.
La principale preoccupazione di Moshe nostro Maestro attraverso l’esodo fu quella di portare il nostro popolo a sostituire la visione del mondo egiziana con l’idea tutta ebraica di Provvidenza: D. può intervenire con atti che esulano dalle leggi naturali (i miracoli) e mettere da parte le combinazioni stellari: “l’elevazione e il successo non derivano da come sorge o tramonta il sole e gli altri corpi celesti: occorre bensì assoggettarsi al Signore del Cielo, il D. Benedetto che amministra le sue cose con giustizia ed equità, il D. che ha la facoltà di umiliare una persona e innalzarne un’altra allo stesso tempo. E nessun altro può farci nulla”. Per questo Moshe condusse i nostri Padri nel deserto per quarant’anni, protetti unicamente dalle Nubi di Gloria, unica “protezione ombrosa dalla calura diurna” (Yesha’yahu 4, 6): “in tal modo avrebbero apprezzato con i loro occhi la Divina Provvidenza, che nulla ha a che vedere con la natura”.
Ciò spiega perché il memoriale di tutto ciò di anno in anno è stato fissato proprio per il mese di Tishrì: la Mitzwah della Sukkah, il tetto di semplici frasche simbolo del nostro affidamento alla Provvidenza, contraddice le leggi naturali che in questo mese sono state stabilite contestualmente alla creazione del mondo. L’unico breve passo della Torah che ci parla della Sukkah dice: בַּסֻּכֹּת תֵּשְׁבוּ שִׁבְעַת יָמִים כָּל הָאֶזְרָח בְּיִשְׂרָאֵל יֵשְׁבוּ בַּסֻּכֹּת: לְמַעַן יֵדְעוּ דֹרֹתֵיכֶם כִּי בַסֻּכּוֹת הוֹשַׁבְתִּי אֶת בְּנֵי יִשְׂרָאֵל בְּהוֹצִיאִי אוֹתָם מֵאֶרֶץ מִצְרָיִם “Nelle Sukkot risiederete per sette giorni: ogni membro di Israel risiederà nelle Sukkot affinché sappiano le vostre generazioni che nelle Sukkot ho fatto risiedere i figli di Israel allorché li trassi dalla terra d’Egitto” (Wayqrà 23, 42-43). Vi sono tutti gli elementi che R. Picho ha delineato, ma soprattutto è prescritta la conoscenza, che egli intende nel senso di “vera conoscenza”: per conoscere la Causa occorre sperimentarla direttamente.
Aggiungo di mio un paio di considerazioni. La Halakhah prevede che a priori le frasche che coprono la Sukkah non siano tanto fitte da precludere la visione almeno delle stelle più grandi: non è escluso che ciò contenga un richiamo a quelle influenze stellari che non dobbiamo temere, oggetto del richiamo costante dei nostri Profeti (cfr. Yirmeyahu 10, 2). Intravvedendo le stelle è come se idealmente le ammettessimo a loro volta dentro la Sukkah e le assoggettassimo all’autorità Divina accanto a noi. Ma soprattutto risulta chiaro come Sukkot si collochi all’apice del processo di Teshuvah. Dopo aver rinnovato negli Yamim Noraim la nostra accettazione individuale della regalità Divina (a Rosh ha-Shanah) ed essere tornati a Lui (durante Yom Kippur), eccoci riaffermare a Sukkot con forza le modalità di esercizio della Sua autorità sul cosmo.
Proprio a Yom Kippur abbiamo ribadito che אין לו תכונה: “D. non ha dimensione”, ma anche: “D. esula dalle leggi fisiche” (Yotzer di R. Yoav da Roma, sec. XIV). Ciò ci introduce alla seconda Mitzwah di cui parla la Torah per Sukkot: gli arba’ah minim, “quattro specie”: di questo R. Picho aveva trattato nel precedente “secondo Derush per il primo giorno di Sukkot”. Egli introduce l’argomento asserendo che Sukkah e Lulav rappresentano due opposti atteggiamenti da parte dell’uomo verso H.: se la Sukkah simboleggia il nostro asservimento (השתעבדות והכנעה) come già spiegato, il Lulav, suggerendo l’immagine di uno scettro (שבט מושלים, Yesha’yahu 14, 5; Yechezqel 19, 11), viene a manifestare potere e governo (שלטנות וממשלה). Su che cosa? Sulle forze della natura. Coerentemente con il suo pensiero R. Picho articola a questo proposito due possibili interpretazioni delle “quattro specie”. La prima è legata a quella materia che in linguaggio scolastico è chiamata “scienze naturali”. Fin da antico la natura è ripartita in quattro “regni” posti in gerarchia uno sopra l’altro. Il regno minerale (domèm) inerte, che viene “dominato” dal regno vegetale (tzomeach, “soggetto a fioritura”) in quanto questo si nutre di minerali, a sua volta sovrastato da quello animale (marghish, ovvero: “dotato di sensazioni”) che si ciba di vegetali e minerali e infine dall’uomo (medabber, “parlante”) che è onnivoro (cfr. R. Moshe Cordovero, Pardes Rimmonim, 24, 10).
Il Lulav rappresenta il dominio sui vari regni. Escludendo quello minerale, privo di vitalità, abbiamo anzitutto il regno vegetale, simboleggiato dalla palma che svettando ci dà l’idea di crescita e fioritura. R. Picho introduce a questo punto il noto Midrash che paragona per la loro forma la foglia del mirto agli occhi e quella del salice alla bocca, ma ne dà una lettura originale: l’occhio rappresenta il più nobile dei cinque sensi e dunque il mirto simboleggia il regno animale “sensibile”, mentre il salice, richiamando la bocca, è la figura umana “parlante”. Queste tre specie vengono legate assieme, perché configurano il mondo inferiore. Nell’altra mano abbiamo il cedro, che se ne sta da solo a rappresentare il mondo superiore: “lo prendiamo in mano per dire che anche il Cielo è dato in nostro potere e lo scuotiamo secondo la nostra volontà”, una volta che entrando nella Sukkah ci siamo sottomessi alla Legge Divina.
La seconda interpretazione che R. Picho dà del Lulav riflette invece proprio la tekhunah, la geometria. Nella prima pagina di ogni manuale scolastico leggiamo che gli enti geometrici fondamentali sono quattro: il punto (privo di dimensioni), la retta (monodimensionale), il piano (bidimensionale) e infine lo spazio (tridimensionale). Il cedro rappresenta il punto privo di dimensioni (lo raffiguriamo comunque come una minuscola sfera) e corrisponde al mondo spirituale; la palma rappresenta la retta nella sua configurazione e nel fatto di essere un solo ramo; i due rami del salice rappresentano il piano, dotato di lunghezza e larghezza, ma privo di altezza, come il salice che non ha gusto, né profumo. Infine i tre mirti, “rami dell’albero folto” rappresentano le tre dimensioni con le foglie disposte armonicamente lungo il fusto a tre a tre secondo la Halakhah. Anche in base a questa interpretazione le ultime tre specie sono legate assieme in quanto convogliano l’idea di spazialità. Agitando gli arba’ah minim esprimiamo l’idea che tutti i mondi sono soggetti all’autorità Divina per mezzo dell’uomo redento, che costituisce il vero tramite fra l’universo e D.
R. Picho, giova ricordarlo, è contemporaneo di Blaise Pascal. Scrive Simone Germini: “Pur essendo un matematico e un fisico, Blaise Pascal (1623-1662) sottolinea come la scienza abbia dei limiti costitutivi che ne “inibiscono” l’utilità e ne restringono notevolmente il campo d’azione”. Uno di questi è l’indimostrabilità dei principi primi. Ma “è soprattutto nelle annose questioni esistenziali, è nel problema del senso della vita, che si manifesta l’incapacità e l’insufficienza della ragione, alla quale Pascal contrappone il cuore, dunque il sentimento e l’intuizione… Tale opposizione ragione-cuore la si ritrova espressa nell’opposizione tra l’esprit de géométrie – ovvero lo spirito di geometria, che si occupa degli aspetti esteriori, apparenti oppure di quelli astratti della matematica e si serve della dimostrazione – e l’esprit de finesse – ovvero lo spirito di finezza, che si occupa dell’uomo e si basa sul cuore, sul sentimento e sull’istinto. L’esprit de finesse vede immediatamente là dove di solito si sente, saltando in blocco la fase della riflessione, del ragionamento. Dinanzi ai problemi esistenziali la scienza è del tutto impotente… «Vanità delle scienze. Nei giorni di afflizione, la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza di questa mi consolerà sempre dall’ignoranza del mondo esteriore». La scienza è vana, e per l’uomo non c’è cosa di maggior valore che la conoscenza di se stesso. Senza questa conoscenza tutto scivola nella vacuità, nell’inutilità. Tutto diviene un esercizio frivolo, inconsistente e vanaglorioso”.
Chi avrà influenzato chi? Difficile dirlo. Ma ammesso che vi sia stato un contatto fra i due autori, credo che R. Picho esprima una posizione meno radicale di Pascal. Per il nostro Darshan veneziano la scienza non si contrappone al cuore, né il ragionamento in quanto tale può essere mai abbandonato. Semmai le “ragioni del cuore” la completano e la sublimano: lungi dall’ignorarla, le riconoscono il ruolo di indispensabile strumento che le compete al servizio dell’umanità. Ma i fini debbono essere altri.
Shabbatot li-Mnuchah u-Mo’adim le-Simchah.
Rav Alberto Moshe Somekh