Nel presentare un nuovo racconto di Mario Pacifici, diamo notizia in anteprima dell’uscita di una sua raccolta di racconti sulle leggi razziali, dal titolo “Una Cosa da Niente”. La raccolta apre uno spiraglio sulla solitudine degli ebrei e sulla connivente acquiescenza di gran parte della società italiana di fronte alla tragedia della discriminazione. Pubblicata da Opposto Editore (www.opposto.net), la raccolta è già in vendita da Kiryat Sefer (via del Tempio a Roma) e in molte librerie del Lazio.
Mario Pacifici
Chiuso in un grumo di inconsapevole sofferenza, David osservava la bara che scendeva nel sepolcro, con la fredda indifferenza di un estraneo. Sebbene a tratti fosse scosso da un lieve tremore, continuava a ripetersi che non c’era nulla che lo legasse a quell’uomo, se non il fatto di essere suo figlio. A pochi passi da lui, sua madre piangeva dietro gli occhiali scuri. David non se ne capacitava. Suo padre le aveva reso la vita impossibile! L’aveva umiliata con i suoi tradimenti e annichilita con i suoi inganni eppure tutto questo non aveva scalfito quella sua irritante devozione.
Sua madre piangeva e lui ne provava rabbia. Rabbia per lei, per le sue lacrime, per quel suo modo ottuso di perdonare ogni ingiuria, ogni oltraggio, ogni affronto.
E quanti ne aveva dovuti subire!
David la ricordava con gli occhi gonfi di lacrime ogni volta che lui spariva di casa, per correre dietro all’ennesimo capriccio.
Tuo padre è fatto così ripeteva lei, in quei momenti. E a dispetto delle lacrime rimaneva in attesa dell’immancabile ritorno, pronta a concedere l’immancabile perdono.
Sei un adorabile cialtrone, gli diceva allora lei, ostentando una collera che, già mitigata dal sollievo, era preludio ad una plenaria assoluzione. E lui annuiva, giurando convinto che non sarebbe accaduto mai più, che mai più si sarebbe allontanato da lei.
Eppure, suo padre era davvero tanto cialtrone quanto adorabile.
Con lui, la casa traboccava di allegria. Aveva un gesto, una carezza, un’attenzione per ognuno. Mai che dimenticasse una ricorrenza o un compleanno. E i suoi regali poi… Tanto sontuosi, da lasciarsi dietro buffi che sua madre, passata la festa, doveva affannarsi a sistemare.
Con il denaro lui aveva un rapporto di sconsiderata indifferenza. Non se ne curava, ma era un maestro nel dissiparlo. E per di più, amava il gioco. Sui tavoli verdi di mezza Europa aveva bruciato intere fortune fino a quando sua madre non gli aveva sottratto, per una volta con testarda determinazione, il controllo degli ultimi quattro pezzetti del patrimonio rimasti liberi da ipoteche.
Il rabbino lo scosse dai suoi pensieri, gli lacerò la camicia e lo aiutò a recitare il Kaddish. E mentre le labbra sillabavano quelle formule aramaiche, tanto familiari quanto incomprensibili, lui continuava a ripetersi che bene avrebbe fatto a rimanersene a casa, marcando col frastuono di una assenza, l’incolmabile distanza che lo separava da quel padre sciagurato.
Ma questa era solo una puerile elucubrazione. Lui non era tipo da colpi di testa. Lui era solo un piccolo, ordinato e metodico commercialista. Un tipo noioso, pensò con accorata malinconia, al cui funerale avrebbero partecipato quattro gatti, non la folla strabocchevole che si assiepava ora intorno al sepolcro.
Quella folla, pensò, era per suo padre una sorta di postumo trionfo. Erano tutti lì per lui, accorsi come per un evento mondano, convinti che senza quell’impareggiabile protagonista il loro mondo non sarebbe più stato lo stesso.
In quella folla, pensava David, c’era l’anima stessa di suo padre. In essa si specchiava quel suo fascino suadente che gli apriva ogni porta e gli conquistava la simpatia, l’amicizia, l’amore di ognuno.
Era un dono quello, ma un dono da cui lui stesso era stato soggiogato. Quell’essere amato e benvoluto infatti, piuttosto che una gratificazione era diventato, col tempo, un imperativo categorico. Viveva per quell’adorazione e ogni incontro, ogni rapporto, ogni relazione finivano per diventare una schermaglia, volta a conquistare l’ambita devozione perfino di gente che non avrebbe mai più rivisto.
Era una droga, un delirio, un trionfo dell’effimero di cui però chi interloquiva con lui non coglieva il senso. Quell’artificio del comportamento, quel misterioso equilibrio fra seduzione e frustrazione sparivano infatti dietro l’amabilità dei modi, dietro l’arguzia del conversare, dietro la folgorante genialità delle battute. Di lui emergeva solo l’irresistibile charme, mentre rimaneva celata la fragilità che lo costringeva a piacere per sentirsi vivo.
Solo David lo vedeva per quello che era e coglieva in lui quella paranoia esistenziale che lo induceva a recitare, sul palcoscenico della vita, la parte dell’uomo baciato dalla sorte. E come un mattatore che cerca nell’ultimo applauso la conferma di un talento, suo padre cercava nell’ultima fiamma le rassicurazioni di cui non aveva mai abbastanza.
Era così che si era trascinato negli anni da una relazione all’altra, con donne di ogni risma, lasciandosi alle spalle le macerie di un matrimonio in frantumi e di una famiglia in dissesto.
David questo non glielo aveva mai perdonato.
Aveva smesso di incontrarlo e per quanto possibile lo aveva cancellato dalla sua vita.
Ma questo, si sa, non è mai facile con un genitore.
A volte gli incontri erano stati inevitabili e David ne era uscito sempre con un intollerabile senso di frustrazione.
“Sempre a studiare!” lo rimbrottava suo padre con quei suoi modi ilari che avrebbero dovuto compiacerlo. “Goditi la vita piuttosto! All’età tua è sulle donne che ti devi consumare, non sui libri. E poi con loro non fare il tirchio. Devi essere splendido, che i soldi servono a quello: a comprarti le gioie della vita!”
“Ma quali soldi!?” avrebbe voluto gridargli David. “Quali soldi, se ci hai lasciati sul lastrico, bruciando il mio futuro sui letti delle tue puttane?”
Avrebbe voluto, ma non ne era mai stato capace e oggi se ne rammaricava.
“Non potrò farlo mai più” pensò con amarezza “e continuerò a sentirmi nelle orecchie i suoi insulsi inviti a una vita lasciva. Ma io non sono fatto della sua pasta. Non mi giocherò la vita, come ha fatto lui, correndo dietro a quattro sgualdrine.”
Dopo la cerimonia, David si allontanò da solo. Ne aveva abbastanza degli abbracci consolatori di quella gente e il solo pensiero dei sette dì in casa di sua madre lo atterriva. Che consolassero lei, se ne aveva bisogno. Lui voleva solo voltar pagina.
Si fermò al primo distributore fuori del cimitero e scese dall’auto per un caffè.
“Pago il pieno” disse alla cassiera, porgendo la carta di credito. “E poi un espresso, il Messaggero e un pacchetto di Winston Blu.”
Lei gli sorrise ed inserì la carta.
“Vuoi anche il biglietto della riffa?” chiese. “E’ l’ultimo…”
Lui scrollò le spalle.
“Non sono di qui…”
“E cosa importa. Tu lasci il numero e se vinci ti chiamiamo noi.”
Aveva già staccato il tagliando e gli porgeva il terminale del POS per inserire la password.
“E’ quello fortunato, l’ho conservato per te” aggiunse ammiccante.
David le sorrise. Era bella, inguainata in una T-shirt aderente, i capelli corti alla Carfagna.
“Allora” disse con inusuale faccia tosta, “se vinco, il premio voglio che sia tu a consegnarmelo.”
“Ci puoi contare” flirtò lei leggera. “Tu pensa a vincerlo, che io te lo consegno.”
Dieci minuti dopo la cosa era dimenticata. Dieci giorni più tardi, però, il telefono squillò mentre lui era con un cliente.
“Hai vinto” disse, senza preamboli, una voce dall’altra parte.
“Sei tu?” chiese lui, in modo un po’ ottuso.
“Certo che sono io. Chi vuoi che sia? Non avrai mica giocato a qualche altra riffa, nel frattempo!”
David rise.
“Sono con un cliente…”
“Lascia che aspetti! E dimmi piuttosto dove vuoi che ti porti il premio.”
La sera alle otto, lei bussò puntuale al suo appartamento.
Indossava un abito nero, corto ed attillato.
“Non ti dovevi disturbare…” mormorò David, tanto per dir qualcosa e celare l’imbarazzo. “Potevo venire io al distributore.”
Lei gli sorrise.
“Ogni promessa è un debito… Ma non mi fai entrare?”
Lui spalancò la porta sul piccolo appartamento. Era un monolocale con una grande finestra affacciata sulle luci di Roma, un arredamento accogliente e tanti libri in giro e sugli scaffali.
“Whaoo!” esclamò lei, posando la borsa. “Che carino qui…”
David annuì, guidandola verso la zona salotto.
“Cosa ti offro…?”
“Quello che prendi tu…” rispose lei, continuando a guardarsi intorno.
Lui tornò dalla cucina con due calici e una bottiglia di prosecco.
“Funziona il compact?” chiese lei, mentre lui armeggiava con il tappo della bottiglia.
Non attese la risposta per mettere su un CD dei Coldplay.
Bevvero lo spumante e chiacchierarono di musica, di cinema, di calcio.
Il tempo passò piacevolmente mentre a piccoli sorsi svuotavano la bottiglia.
“E’ ora che vada” disse lei a un tratto, alzandosi in piedi.
Improvvisamente David si rese conto che non voleva che lei se ne andasse.
“Non vuoi trattenerti per due spaghetti?” chiese.
Lei lo squadrò con un sorriso malizioso.
“Perché? Sai cucinare…?”
Lui allargò le braccia, divertito.
“Veramente no, ma confido in te… In cucina ho pochi ingredienti e molti surgelati.”
Lei si infilò un grembiule e imbastì una cena, mentre lui si occupava del vino e apparecchiava la tavola.
Chiacchierarono ancora, cenando, e il tempo volò via.
“Ora è davvero tardi” disse alla fine lei, dando un’occhiata all’orologio. “Devo andare… Ma tu riuscirai a sparecchiare da solo?”
David scrollò le spalle.
“Farò del mio meglio…”
“Bene… Allora io vado…”
Si alzò. Le girava un po’ la testa e si sentiva euforica.
Improvvisamente si rammentò del premio.
“Non mi hai nemmeno chiesto che cosa hai vinto.”
Lui la fissò con un sorriso un po’ infantile.
“Speravo fossi tu il premio.”
In vita sua, non si era mai sognato di dire qualcosa del genere.
Forse fu il vino oppure l’atmosfera, ma di certo lei non se ne offese.
Lo guardò con tenerezza. Poi gli mise una mano fra i capelli e lo trasse a sé, baciandolo con trasporto.
La mattina dopo quando si svegliò, lei dormiva ancora nel suo letto.
Cercò i calzoni del pigiama e andò a preparare la colazione. Quando tornò con il caffè e i biscotti lei era sotto la doccia.
Appoggiò il vassoio sul letto e fece scorrere la mano sulle lenzuola. Non sapeva nemmeno come si chiamasse e già era pazzo di lei.
Pochi minuti e lei uscì dal bagno, avvolta in un asciugamano.
“Un caffè?” chiese lui.
Lei gli si accoccolò vicino e centellinò il caffè a piccoli sorsi, senza parlare.
“Devo andare” disse a un tratto “o farò tardi al lavoro.”
Gli dette un piccolo bacio sulle labbra e si vestì in fretta sotto il suo sguardo.
David la accompagnò alla porta, con la sensazione che rimanesse qualcosa di importante ancora non detto.
“Io…” provò a dire, ma lei gli stava tendendo una busta.
“Il tuo premio. Trenta biglietti della lotteria di Capodanno.”
David si rigirò la busta fra le mani senza alcun interesse.
“Quando ci rivediamo?” chiese con un sorriso.
Lei era seria. Abbassò gli occhi e scosse la testa.
David si sentì perduto.
“Perché no? Io non voglio perderti!”
Lei sollevo lo sguardo e lo baciò sulle labbra, facendo scorrere la mano sulla sua pelle nuda.
“Perché questa è una barriera…” disse infine, battendo un dito sul suo maghen David.
“Ma che dici…? Non esistono barriere! Non per me almeno…”
“So come vanno le cose. Ci sono già passata. I ragazzi ebrei, quando si vogliono sposare, si cercano una brava ragazza ebrea. Io non ho l’età per imbarcarmi in una relazione senza prospettive. E non voglio soffrire ancora. Potrei star bene con te ma credimi, ci faremmo del male l’un l’altro.”
“Non voglio perderti” ripeté lui. “Ne parleremo ancora… Io non sono come tutti gli altri…”
“No!” rispose lei con dolcezza. “Fermiamoci qua. E’ stato bello, ma non funzionerebbe. Lo sappiamo entrambi.”
David scosse il capo.
“Non è così. Dammi il tuo numero di telefono. Sono certo che fra qualche giorno vedrai le cose in modo diverso.”
“No!” ripeté lei con fermezza.
“E allora prendi il mio.”
Afferrò una penna e si guardò intorno alla ricerca di un pezzo di carta.
“Scrivilo qui” disse lei, porgendogli il braccio.
Lui scosse il capo. Non voleva che il numero scivolasse via alla prima doccia. E poi un numero sul braccio gli faceva orrore.
Afferrò la busta, ne tirò fuori un biglietto e vi scrisse sopra il numero del cellulare.
“Chiamami!” disse, infilandolo nella sua borsetta.
Lei lo baciò sulle labbra, gli sorrise e andò via senza aggiungere altro.
Per molti giorni David attese che lei lo chiamasse ma alla fine si convinse che non sarebbe successo. A volte provava l’impulso di recarsi al distributore ma sapeva che sarebbe stato del tutto inutile. E poi, sebbene gli facesse male doverlo ammettere, si andava convincendo che lei non aveva tutti i torti. Il problema delle tradizioni, l’educazione dei figli, l’atteggiamento delle reciproche famiglie… In vista di un matrimonio quelli sarebbero stati tutti macigni difficili da rimuovere e perfino da aggirare.
A poco a poco quella serata magica divenne per lui un ricordo malinconico e nostalgico, cui riandare di tanto in tanto col pensiero. Qualcosa di bello ma definitivamente concluso.
Proprio però mentre raggiungeva questa pacata rassegnazione, un altro pensiero gli si faceva strada nella mente. Un pensiero tanto ridicolo quanto persistente. Lui si considerava una persona pragmatica e razionale, per nulla incline alle credulità superstiziose, eppure quel pensiero gli lavorava dentro come un tarlo. La più irripetibile delle avventure, continuava a pensare, gli era capitata pochi minuti dopo il funerale di suo padre. Come non vedere in questo una stupefacente connessione? Quella fulminea, esaltante e amara relazione prese così, poco a poco, a configurarsi nella sua immaginazione, contro ogni logica ed ogni razionale convincimento, come un ultimo dono di suo padre. Un dono avvelenato, però. Un ultimo sberleffo. Tu non sei fatto della mia pasta…? Beh, eccoti servito! Ora lo sai cosa può darti una donna! Ora lo sai cos’è una passione! E’ facile fare il saccente, parlando dei sentimenti e delle pulsioni altrui. Ma tu non sei diverso da me. Sotto quella maschera di noioso perbenismo, brucia lo stesso fuoco che ardeva nelle mie vene. Tu sei come me e se ne avrai l’occasione farai le stesse scelte per le quali mi condannavi.
David era spaventato da quella deriva dei suoi stessi pensieri ma per quanto cercasse di arginarla, soffocandola sotto una montagna di razionali intendimenti, essa tornava a tormentarlo con una insistenza morbosa.
Giorno dopo giorno tuttavia, quell’incontro fortuito e devastante si faceva nella sua mente più lontano e sfumato, tanto che David riuscì alla fine a relegare gli inquietanti pensieri da cui era stato turbato in uno di quei cassetti della memoria con su scritto questioni inesplicabili.
Un paio di mesi dopo, entrando una mattina nel bar sotto casa, trovò la cassiera intenta a controllare sul giornale il suo biglietto della lotteria.
“Anche per questa volta non sono diventata milionaria!” sbuffò, strappando il tagliando. “E pensare che il primo premio è stato vinto a Roma. Magari l’ha vinto lei, dottore… Ha controllato?”
“No, io no! Non ho neppure il biglietto!”
Nel dirlo si ricordò del premio della riffa e subito quei pensieri irrazionali, di cui credeva di essersi liberato, tornarono ad emergere sornioni.
Non può essere, si disse con forza. Era perfino indispettito di poterlo pensare. Eppure, di andare in ufficio senza prima controllare non se ne parlava nemmeno. Mio padre sarebbe capace di tutto pensò, dandosi beninteso dell’idiota per averlo solo pensato.
A casa cercò la busta in fondo a un cassetto ed accese il computer per connettersi con il sito della lotteria.
Prese i biglietti e se li fece scorrere sotto i polpastrelli. Erano in sequenza. Bastava controllarne uno per controllarli tutti.
Clikò sulla pagina delle estrazioni e partì dal primo estratto. Codice alfabetico MS AJ. Corrisponde! Poi 615. Esatto! Il cuore gli batteva furiosamente, le mani gli tremavano. 718. Oh santo Dio! 946.
Il biglietto gli cadde dalle mani.
“Ho vinto” mormorò sottovoce, quasi per convincersi di essere sveglio.
Spazzò via il biglietto che aveva controllato e che finiva con 941. Quello vincente era nel mazzo degli altri, dal momento che erano tutti in sequenza.
Nell’attimo stesso in cui ne prendeva coscienza, una terribile premonizione gli tolse il fiato.
Oh no! Lui sarebbe capace di tutto, pensò con assoluta convinzione.
Fece scorrere febbrilmente i biglietti. 943, 944, 945, 947.
Ricontrollò tre volte ma non c’era verso. Il 946 mancava. Ci aveva scritto sopra il numero di telefono per quella sgualdrina senza nome! Aveva dato via per niente una fortuna!
Si accasciò sul divano in preda ad un tremito isterico, mentre una voce gli rimbombava nella testa.
E allora, sei fatto davvero di una pasta diversa?
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