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I racconti del Talmùd a fumetti 1
€19,00
Scene di vita quotidiana ricche di astuzia, umanità e saggezza
2011 – Pagine 136
Informazioni aggiuntive
Brossura morbida plastificata
210×297 mm
Descrizione
Circa un quarto dell’enorme corpus legislativo che il Talmud rappresenta è costituito da parti narrative o descrittive della vita vissuta dai Maestri che ne sono i protagonisti e fungono da supporto alle discussioni legali o rituali. I racconti di questa raccolta, tratti dal Trattato di Ta’anìt (o del Digiuno) illustrano efficacemente questo carattere di supporto anche quando sembrano illustrare episodi curiosi o umoristici. L’uso del fumetto in questo caso, rende più efficace per il lettore adulto e soprattutto per quello più giovane, sia a livello visivo sia a quello testuale, la comprensione delle tematiche, che non sono affatto confinate in un’epoca distante e ne possiamo scoprire la decisa attualità.
La principessa, il saggio, lo stolto, il mercante sembrano i personaggi conosciuti delle favole ma qui diventano strumenti di sottili trame a sfondo morale, sociale e religioso. La sapiente matita di Mario Camerini ha reso possibile tutto questo grazie a un’attenta e rigososa iconografia che ci trasporta piacevolmente nei primi secoli dell’era volgare.
Illustrazioni: Mario Camerini
Approfondimenti: Rav Alberto Somekh
Apparato didattico: Gaia Piperno
La tradizione ebraica del racconto
Elèna Mortara
In un testo scherzoso dedicato ai dieci motivi per cui aveva scritto letteratura per i giovani, Isaac Bashevis Singer, che amava divertire il suo pubblico e apparire ingenuo come il suo personaggio Gimpel l’idiota, ha spiegato che i ragazzi sono i migliori lettori, perché leggono per il semplice gusto del racconto, non sono interessati alle recensioni dei critici, ai commenti, alle note, né si aspettano dallo scrittore prediletto che redima il mondo: “Giovani come sono,” concludeva Singer, “loro sanno bene che questo [redimere il mondo] non è in suo potere. Soltanto gli adulti nutrono queste illusioni infantili.” Questo proclama spassoso, letto al banchetto in suo onore in occasione del premio Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1978, tuttavia, non contiene che una parte del vero pensiero dello scrittore. Erede di una plurisecolare tradizione del racconto assorbita nelle conversazioni dei genitori, entrambi di antica discendenza rabbinica, egli ben sapeva che la letteratura, come da lui stesso affermato altrove, innanzitutto “ci aiuta a ricordare il passato nelle sue varie forme” e a mantenere vivo ciò che è scomparso, in questo svolgendo un compito etico di resistenza al male provocato dagli uomini e alla distruzione del tempo (“Nella vita reale molte persone che io descrivo non esistono più, ma per me sono ancora vive, e spero che divertano il lettore con la loro saggezza, le loro strane credenze, e qualche volta con la loro stupidità,” afferma in una prefazione; ove si vede che anche dall’esempio della stupidità degli altri esseri umani è possibile imparare, divertendosi). In alcuni splendidi racconti, quale “L’ultimo demone” o lo stesso ben noto “Gimpel tam”, Singer ha poi saputo modulare il tema del narratore in potenti figure, alludendo a ben altri poteri, di sogno e rappresentazione del reale, di cui il racconto è capace, su cui ora non ci soffermeremo.
Sull’importanza del racconto quale forma di espressione e sul rapporto tra il raccontare ebraico moderno e la tradizione, ha scritto pagine illuminanti Saul Bellow, altro grande romanziere ebreo americano del ‘900, vincitore anch’egli di premio Nobel, che nell’introduzione ad una raccolta di racconti ebraici dal lui curata (Great Jewish Short Stories, 1963), dopo aver sostenuto che il messaggio della Bibbia ebraica “non può essere facilmente separato dalle sue storie e metafore”, ha evidenziato il proprio collegamento con quella tradizione, esprimendo la propria profonda fede nel narrare con queste parole mirabili (che qui traduco): “Perché vi è un potere nel racconto. Esso testimonia il valore, il significato di un individuo. Per un breve momento tutta la forza e tutto lo splendore del mondo sono concentrati su alcune figure umane.” “Nella sconfitta”, aggiungeva Bellow, “il racconto contiene la speranza del riscatto, della giustizia. Il narratore è capace di far sì che gli altri accettino la sua versione delle cose. E nei racconti della tradizione ebraica il mondo, e persino l’universo, hanno un significato umano.”
Anche un altro grandissimo esponente della letteratura ebraica diasporica del ‘900, Franz Kafka, ha sottolineato la propensione al narrare propria dell’anima ebraica. In un brano dei Colloqui con Kafka (1947) di Gustav Janouch, il giovane amico dello scrittore ricorda una conversazione in cui lo scrittore praghese, stringendosi nelle spalle, avrebbe espresso sorridendo con queste parole il suo imbarazzo all’idea di “rappresentare” una “situazione del mondo e dell’anima” (così viene definito il capitalismo!), come richiestogli dal giovane: “Non lo so. In fondo, noi ebrei non siamo pittori. Non sappiamo dare delle cose una rappresentazione statica, ma le vediamo sempre in moto, in flusso, in mutamento. Noi siamo narratori.”
La verità è che esiste nell’ebraismo una tradizione antica del racconto che ha la sua radice prima nella stessa Torà. È significativo che nel suo Commento al libro della Genesi, “Bereshit”, il grande commentatore medievale Rashi inizi la sua ricerca sul senso delle prime parole del testo proprio partendo da un interrogativo che investe la funzione del racconto. Per quale ragione, egli si domanda, la Torà, e cioè l’insegnamento dato al popolo, non comincia in principio con un comandamento a Israele (per il primo dei quali bisogna attendere addirittura fino al cap. 12 dell’Esodo), ma con il racconto della creazione? E’ metodologicamente illuminante che in questa opera chiave dell’esegesi rabbinica il commentatore apra la sua indagine con la problematizzazione del testo analizzato, di cui viene messa in evidenza la apparente incongruenza (“La Torà avrebbe dovuto…”), che proceda quindi attraverso la modalità di un esplicito interrogativo posto al testo (“Per quale ragione allora…?”), e che in questa prima interrogazione venga sottolineata la centralità di un insegnamento comunicato attraverso la forma del racconto (nelle parole di Rashì: “In principio creò Dio il cielo e la terra. In principio – R. Yizhaq disse: La Torà avrebbe dovuto avere inizio con: Questo sarà per voi il primo dei mesi, che è il primo comandamento dato ad Israele. Per quale ragione allora comincia con il racconto della creazione?”).
È altrettanto significativo che nel commento successivo Rashì sottolinei la essenziale funzione delle molteplici interpretazioni: “In principio creò – Questo testo non dice altro che: Interpretatemi!”, insegnamento seguito subito dopo dalla concreta elencazione di una serie di diverse interpretazioni fornite nel tempo dai maestri. “Civiltà del racconto” e “civiltà del commento” sono, come sottolineato da Paolo De Benedetti nella sua introduzione a Rashì per l’editore Marietti, legate da un nesso di centrale importanza nell’ebraismo.
La propensione al racconto nella tradizione ebraica è talmente forte che persino il commento al racconto biblico si è spesso espresso nella forma di un nuovo racconto. Da qui è nato lo straordinario patrimonio di racconti profusi nella letteratura ebraica rabbinica postbiblica. Al di là della distinzione tradizionale nella storia del pensiero ebraico tra letteratura halachica, normativa, e letteratura haggadica, narrativa, è piuttosto l’intima connessione esistente tra queste due polarità espressive inscindibili dell’anima ebraica che va messa in luce, come segnalato con forza da Abraham Joshua Heschel in Dio alla ricerca dell’uomo (1955).
I midrashim riuniti in questa raccolta illustrano efficacemente i caratteri di una plurimillenaria tradizione ebraica del racconto, che è insieme ricerca del senso del testo e del senso della vita. Come è tipico del metodo midrashico, i concetti e le riflessioni su come comportarsi nella propria esistenza non sono espressi in forma di ragionamento astratto, ma attraverso la parabola e l’esempio, in testi in cui episodi più o meno problematici del racconto biblico, solitamente descritti in forma concisa nel testo di partenza, vengono espansi in dialoghi e narrazioni che approfondiscono il senso del testo, con riferimenti ad altri testi del corpus tradizionale, nelle discussioni intrecciate dei maestri. In tutto questo sentiamo il significato pieno della parola ebraica midràsh, la cui radice, daràsh, significa “ricercare, investigare, interpretare”.
Attraverso il racconto di episodi di vita legati ai personaggi della Torà, viene svolta la doppia funzione del ricordare e dell’insegnare i principi da osservare, tramite la pratica della ricerca di senso di quanto avvenuto nelle generazioni passate. Come ha scritto il rabbino Giuseppe Momigliano, tra gli obiettivi principali del midrash haggadà “possiamo individuare la ricerca e l’illustrazione di quelli che sono i valori eterni del racconto biblico per il popolo di Israele: gli episodi vengono spesso intesi come ma’asè ‘avòt simàan la-banìm ossia le vicende dei padri sono un monito per i figli” (“L’interpretazione omiletica: il Midrash-haggadà”, in La lettura ebraica delle Scritture, a cura di Sergio J. Sierra, 1995). I valori sono eterni, ma la pluralità dei punti di vista dei maestri immessi nel dibattito insegna una visione non dogmatica dell’interpretazione dei testi, in un processo dinamico in cui, d’altra parte, non si riparte mai da zero, e si fa continuamente tesoro delle letture del passato.
È quanto viene insegnato anche in un racconto di questa raccolta, “Torà e studiosi di Torà” (Ta’anit 7a), nell’ultimo dei pareri dei maestri che discutono. Vi si legge che “R. Oshàya disse: ‘La Torà è paragonata all’acqua, al vino e al latte. Come questi si contaminano se non sono conservati in recipienti chiusi e controllati correttamente, così anche la Torà si dimentica se non è custodita nel modo giusto, cioè continuamente riesaminata.’” L’insegnamento va continuamente reinterpretato e rivissuto. Il fine ultimo, secondo la tradizione ermeneutica, è quello del chiddùsh, cioè del “nuovo significato” che si riesce ad attribuire ad un passo, sia esso della Torà o del Talmud (Benedetto Carucci Viterbi, “Le regole ermeneutiche per l’interpretazione del testo biblico: Torah scritta e Torah orale”, in La lettura ebraica delle Scritture). La raccolta di midrashim tannaitici che ora si presenta in onore di David, nella festosa ricorrenza del suo bar-mitzvà, si offre dunque al lettore di ogni età come rinnovato occasione di stimolo alla riflessione. Converrà partire dal semplice piacere della lettura cui ci invita Singer, che qui si arricchisce di nuove possibilità espressive e interpretative grazie all’aggiunta del mezzo grafico, per sondare in forme nuove e sorprendenti i racconti, “ sempre in movimento” (Kafka), della tradizione.
Illustrare per insegnare
Andrea Grilli
Nel 1914 Marc Chagall realizzava “Ebreo in preghiera”, ignoto il luogo, forse Parigi, forse Vitebsk dove è stato dipinto. Raffigura un uomo mentre prega. I suoi occhi sono rivolti al cielo e la bocca è aperta. Estremamente particolare è il fatto che quella bocca aperta ci suggerisca l’istante della parola che esce dalla bocca stessa dell’uomo, quanto anche lo stato di emozione dell’uomo, che ci appare stupito e ammirato del momento fortemente spirituale che sta vivendo oppure ammirato dal significato e dal suono delle parole che sta pronunciando? È forse blasfemo questo quadro? Se fossimo attenti ai divieti, sì e dovremmo anzi sottolinearlo, ma in realtà insieme a Pascin e ai primi illustratori delle riviste newyorchesi del Novecento, Chagall conduce il popolo ebraico in un mondo totalmente diverso. L’affacciarsi al mondo delle immagini è una grande conquista per la cultura ebraica quanto per il mondo culturale nella sua interezza. Poter ammirare i quadri di Chagall come le tavole di Will Eisner o Jack Kirby amplia i nostri orizzonti. Una domanda più che naturale potrebbe porsi. Ma possiamo ammettere anche il disegno nei temi religiosi? Si può disegnare un Midrash? In realtà questo volume non è solo nel panorama dell’editoria religiosa ebraica. Già nel 1985 Joe Kubert aveva realizzato The adventures of Yaakov and Isaac per l’editore Mahrwood Press. Per ogni storia l’autore presentava una introduzione e un finale dove vengono offerte ulteriori riflessioni e spunti per approfondire i valori dell’ebraismo. Si tratta di un volume veramente strano, ma non è il primo, a combinare illustrazioni ed educazione, basta ricordare le bellissime Haggadòt di Mark Podwal e di Emanuele Luzzati; oppure L’ebraismo per principianti di Charles Szlakmann (in Italia Giuntina) che con molto umorismo e ironia racconta la storia degli ebrei e i principi dell’ebraismo.
Si può quindi rappresentare il religioso? Sembra di sì, ma mi permetto di sottolineare sempre e solo se si rispetta un antico principio espresso da Mekhilta sull’Esodo 19, 18: «Descriviamo Dio con termini ricavati dalla Sua creazione perché possa essere intelligibile all’orecchio umano». È poi lo stesso principio con Crumb ha rappresentato il divino nel suo Il Libro della Genesi.
Un altro elemento molto importante di questo libro è quanto espresso nel racconto “Studiosi di Torà”: “Io ho imparato molto dai miei maestri, ancora di più dai miei colleghi, ma più di tutti dai miei studenti”. Come sanno bene gli insegnanti i giovani possono essere una fonte incredibile di stimoli e conoscenza, ma bisogna saperli prendere, come spesso si dice. E questo vuol dire saper proporre argomenti secondo forme spesso inedite e nuove. Ecco che la forma del fumetto aiuta a proporre loro in un modo sicuramente accattivante e curioso temi anche estremamente seri e complessi.
Per concludere non si può che azzardare il commento che lavori come questo siano coerenti con il processo di conoscenza della tradizione ebraica. Se riflettiamo attentamente, il Talmùd per esempio ha, per sua stessa natura, la capacità di adattarsi al nuovo che arriva, e arriva sempre con una buona dose di ignoto e di mistero. Non sono certe le leggi e le forme definite a darci la capacità di affrontarlo, ma la flessibilità che viene dalla parola orale e dal suo evolversi nel dibattito contenuto nella forma del Talmùd, che rende le discussioni contenute in esso così potenti da resistere ancora oggi nella vita quotidiana. Ecco perché adottare una forma nuova, la forma disegnata, non solo è un nuova forma di espressione di quel lavoro che iniziarono i rabbini della Palestina e di Babilonia, ma soprattutto un modo per sollecitare il suo valore.
Infine Mario Camerini. La sua linea è pulita e precisa come una frase ben composta. La sintassi narrativa, la composizione delle vignette sono un manuale di chiarezza visiva. Camerini ha il dono della limpidezza, parola a cui il dizionario dei sinonimi di Decio Cinti associa parole come trasparenza, lucentezza e chiarezza. Parole che mi sento di associare tranquillamente al suo lavoro.
Non si può che augurare una sapiente lettura, una profonda opportunità di visualizzare insegnamenti antichi nella loro nascita, moderni e attuali nel loro valore.
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