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Haggadà di Pèsach commentata da rav Somekh

24,00

Il testo guida per la cena pasquale ebraica con una selezione di commenti dei grandi autori
2012 – Pagine 212

Informazioni aggiuntive

Autore

Alberto M. Somekh

Copertina

Brossura morbida plastificata

Formato

170×225 mm

Testo

Testo ebraico e traduzione italiana a fronte, Testo italiano

COD: 106 Categorie: , , Product ID: 351

Descrizione

La Haggadà è il testo che guida la cerimonia chiamata Sèder di Pèsach, durante la quale le prime due sere della relativa festa,  si racconta attorno al tavolo familiare della miracolosa uscita del popolo ebraico dall’Egitto ad opera dell’Eterno e degli episodi immediatamente successivi. Nel corso di questa cena vengono compiute, secondo un rituale prestabilito, delle piccole azioni che servono a suscitare la curiosità dei partecipanti più piccoli, in maniera che possano poi intervenire gli adulti con le loro spiegazioni. La Haggadà è infatti da secoli uno degli strumenti più efficaci nella trasmissione identitaria, perché riesce a legare esperienze diverse tra loro, creando un ponte generazionale.

Tra tutte quelle pubblicate in lingua italiana quella di rav Alberto M. Somekh è probabilmente quella più commentata. Dopo un lungo e dettagliato apparato rituale e alcuni articoli che approfondiscono le tematiche della festa, l’autore commenta diversi brani del testo citando fonti ebraiche diverse per epoca e per latitudine, aggiungendo però sempre il suo originale apporto di studioso sensibile e attento.

 

Nota introduttiva

Un’esperienza multiforme

Nel suo commento alla Haggadà di Pèsach r. Eli’èzer Ashkenazì, un Maestro italiano del XVII secolo, si domandava perché ci siano ben tre feste di redenzione nel nostro calendario. Per insegnare il concetto non ne sarebbe bastata una sola? Egli risponde che ci sono tre modi per salvare una persona aggredita da altri.

Annientare l’aggressore per conto della vittima;

Dare alla vittima la forza di combattere da solo contro l’aggressore;

Far sì che l’aggressore elimini se stesso. In corrispondenza di queste tre modalità sono state istituite altrettante feste “di redenzione”.

A Chanukkà il S.B. ha dato a Israèl, ancorché in minoranza, la forza di combattere i Greci da solo (ghibborìm beyàd chalashìm verabbìm beyàd me’attìm). A Purìm il S.B. ha fatto in modo che i Persiani stessi si eliminassero da soli attraverso la revoca dell’editto di distruzione. A Pèsach, infine, «L’Eterno combatterà per voi (contro gli Egiziani) e voi ve ne starete quieti». Aggiungiamo noi che a questo parrebbe alludere il versetto della Torà in cui di Dio stesso è detto che «Ci protegge tutto il giorno – Chofèf ’alàv kol hayòm» (Devarìm 33, 12, dove le tre lettere del verbo chofèf – protegge, scritto senza la vav!) sono le iniziali rispettive delle tre festività: Chanukkà, Purìm e Pèsach.

A ben vedere Pèsach si eleva al di sopra delle altre due feste, in quanto le comprende e le sublima entrambe. Scrive infatti il Levùsh che a Purìm prevale l’aspetto della salvezza materiale dal pericolo di uno sterminio fisico e le mitzvòt della giornata ruotano intorno al cibo e al vino, mentre non è prescritta la recitazione del Hallèl, la serie di Tehillìm (113-118) in lode e ringraziamento del S.B. A Chanukkà invece i nostri padri corsero il rischio dell’assimilazione forzata e dell’annientamento spirituale. Conseguentemente le mitzvòt degli otto giorni si concentrano intorno al motivo della lode del S.B. e del ringraziamento: si recita l’Hallèl, ma non sono prescritti pasti festivi. Il sèder di Pèsach rappresenta una sintesi mirabile di entrambi i motivi: in esso trovano adeguato spazio tanto il motivo del cibo (con i due alimenti di precetto, la matzà – azzima, e il maròr – erba amara: è l’unica volta che recitiamo berakhòt ’Al akhilàt…) e del vino (i Quattro bicchieri) che quello del Hallèl. La ragione è che in Egitto sperimentammo tanto il passaggio dalla schiavitù alla libertà materiale che la liberazione spirituale dall’idolatria al monoteismo. Ne è testimonianza efficace la controversia fra Rav e Shemuèl (Babilonia, III sec.) se si deve cominciare il Magghìd, la parte narrativa della serata, con il brano ’Avadìm hayìnu – “Schiavi fummo”, che allude al primo motivo, o con le parole “Mittechillà ’ovedè ’avodà zarà hayù avotènu – Inizialmente i nostri padri erano idolatri”, che allude al secondo. La mancata soluzione della controversia ha fatto sì che recitassimo entrambi i brani. 

Non è un caso che proprio l’invito iniziale rivolto a tutti i potenziali ospiti (Ha lachmà ’anyà) è duplice: “Chiunque ha fame venga e mangi; chiunque ha bisogno venga e faccia Pèsach”. È noto che vi sono due tipi di Ebrei: a colui che sembra prediligere il motivo spirituale e “religioso” si fa presente che Pèsach è stata anche una salvezza materiale da chi voleva sterminarci fisicamente, gettando i nati maschi nel Nilo prima e la dura schiavitù poi. Colui invece che vede nella festa solo o prevalentemente un motivo di gioia materiale e conviviale viene invece portato a riflettere che il sèder è anche e soprattutto un’occasione spirituale. Non è un caso neppure che proprio Ha lachmà ’anyà sia scritto in aramaico. In base al Talmùd (Shabbàt 12b) ha senso infatti adoperare l’aramaico, anziché l’ebraico, solo dove Dio è presente personalmente, senza necessità di intermediari celesti che non conoscono quella lingua. La Shekhinà è dunque presente alla tavola del sèder (R. ’Ovadyà Yosèf, comm. alla Haggadà Chazòn ’Ovadyà ad loc.).

Il Mèshekh Chokhmà (a Shemòt 6, 9) distingue nel sèder quattro motivi diversi e li mette in relazione con i Quattro bicchieri di vino da un lato e con il Midràsh che afferma che quattro furono i meriti per i quali gli Ebrei uscirono dall’Egitto. Il primo bicchiere si beve con il Kiddùsh ed esprime la kedushà del popolo ebraico che in Egitto mantenne una fedeltà coniugale irreprensibile. Il secondo bicchiere si beve dopo aver letto il racconto della Haggadà ed è in corrispondenza con il fatto che gli Ebrei «Non hanno mutato i loro nomi» e hanno una consapevolezza storica profonda del proprio passato. Il terzo bicchiere si beve al termine della Birkàt hamazòn – Benedizione del pasto, a testimoniare il fatto che «Gli Ebrei in Egitto non praticarono la maldicenza»: è noto infatti che questa trasgressione si verifica particolarmente «Quando manca la fede nella provvidenza che dà da mangiare a tutti» e si invidia il prossimo che sembra averne più di noi. Il quarto bicchiere, infine, si beve al termine del Hallèl in corrispondenza del fatto che gli Ebrei in Egitto non mutarono la loro lingua. Il Hallèl stesso esprime fede nella redenzione e nella riaffermazione futura della nazionalità d’Israèl.

Il sèder costituisce dunque una sintesi di elementi diversi. Già Abravanèl si domandava perché nel Ma nishtanà non si fanno domande anche su altre novità del sèder, come per esempio sui Quattro bicchieri di vino. Il significato delle quattro domande – rispondeva Abravanèl – sta nel fatto che al sèder si compiono gesti di senso contraddittorio, in quanto alcuni indicano schiavitù ed altri libertà: da un lato si mangiano intingoli come alla mensa dei principi, dall’altro si mangiano matzà al posto del pane e maròr come segnali di schiavitù, e poi di nuovo si sta appoggiati sul gomito in segno di libertà: vi sono cioè due testimonianze per ogni significato, come dice il verso: «Ogni causa si sostiene solo per bocca di due testimoni» (Devarìm 19, 15). Pertanto non parla dei Quattro bicchieri di vino, che di per sé non indica né schiavitù né libertà, in quanto talvolta anche gli schiavi indulgono nel bere. R. Eli’èzer Ashkenazì spiega invece che tutte le modifiche a situazioni normali consistono in tre possibilità: chassìr – qualcosa mancante, yattìr – qualcosa di troppo, e chalìf – qualcosa di differente, come nel caso delle terefòt – imperfezioni, del polmone (Chullìn 47a) o di uno pesùl – errore invalidante, nella scrittura del Sèfer Torà. Il fatto che durante il sèder si intinga due volte mentre le altre sere non si intinga affatto è un esempio di yattìr. Il fatto che durante il sèder si mangi solo matzà, mentre le altre sere chamètz o matzà è un esempio di chassìr. Il fatto che durante il sèder si mangi maròr mentre le altre sere ogni altra verdura è un esempio di chalìf. E dopo aver elencato le variazioni di menù fornisce un esempio di variazione di galateo: lo stare appoggiati sul gomito sinistro.

Una classificazione simile può essere adottata per i quattro figli: il chakhàm si stupisce solo delle aggiunte – yattìr; il rashà’ è interessato a ciò che manca – chassìr; il tam domanda solo quando vede qualcosa cui non è abituato – chalìf; il sheenò yodèa’ lish’àl non si stupisce neppure delle variazioni nei comportamenti. I quattro figli corrispondono ai quattro figli dei patriarchi. Il chakhàm corrisponde a Yitzchàk che domandò: «Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’animale da sacrificare?» Il rashà’ corrisponde a ’Esàv che domandò in tono di critica «Che cos’è questo accampamento in cui mi sono imbattuto?» Il tam corrisponde a Ya’akòv che, di fronte all’inganno del matrimonio con Leà domanda: «Ma zot ’assìta li». E infine, a proposito di Ishma’el, la Torà non registra alcuna domanda.

Rav Soloveichik (nei due articoli: ’Ekronot Hahoraà Shel Hahaggadà e Tish’à Hebbetìm Shel Hahaggadà) insiste in particolare sul fatto che il sèder di Pèsach costituisce un’esperienza pedagogica multi-mediale ante-litteram. Il padre-educatore si serve di mezzi “audio-visivi” per tener desta l’attenzione dei bambini, scopo per il quale è necessario puntare sul cambiamento – shinnùi, rispetto alle abitudini e sul colpo di scena: «Questa notte occorre effettuare cambiamenti affinché i bambini vedano, facciano domande e dicano: “Che differenza c’è fra questa sera e tutte le altre?” Come si effettuano questi cambiamenti? Distribuendo noci e frutta secca, sparecchiando la tavola davanti a loro prima della cena e sottraendosi la matzà a vicenda» (Maimonide, Hil. Chamètz Umatzà 7, 3). A ben vedere sono interessati all’esperienza del sèder almeno quattro sensi su cinque. Sono gli stessi quattro sensi, eccetto l’odorato, che furono coinvolti nella trasgressione di Adàm e Chavà. L’odorato rimane tra tutti il senso più puro e immateriale: quello che viene esaltato attraverso il sacrificio e dona a Dio la soddisfazione (rèach nichòach: Rashì a Vayikrà 1, 9; TB Berakhòt 43b), ma anche quello che il patriarca Yitzchàk avvertì di più allorché suo figlio Ya’akòv, avendo indossato gli abiti di suo fratello ’Esàv, gli recò i due capretti per ottenerne la benedizione prima che morisse. Il Midràsh racconta infatti che il padre avvertì il profumo dell’Èden, precedente alla trasgressione (Rashì a Bereshìt 27, 27) e che in quel momento era Pèsach: dei due capretti uno era antesignano del korbàn pèsach (Rashì a Bereshìt 27, 9). Soltanto quando sarà ricostruito il Santuario e si riprenderà ad eseguire il sacrificio pasquale torneremo ad avvertire il profumo delle sue carni nella pienezza del suo significato.

Lo stesso autore si sofferma anche sul significato particolare della matzà e del divieto del chamètz. Lo schiavo si distingue dall’uomo libero per non avere un progetto suo proprio e pertanto nel servire il suo padrone non ha cura del tempo che passa. Proprio perché manca allo schiavo la coscienza del tempo secondo la Halakhà egli è esentato dalle mitzvòt legate al tempo. La prima esigenza che si presentò agli Ebrei appena liberati fu dunque quella di riappropriarsi del proprio tempo ed economizzarlo. La coscienza del tempo non ci consente solo di vivere il presente nell’aspettativa di realizzare finalmente i nostri sogni e le nostre aspirazioni. «Essa ci assicura anche che abbiamo la libertà di manifestare delle decisioni ed il dovere morale di intervenire sulla realtà».

I commentatori citati

Chizzekuni (o Chazzekuni). Titolo con cui è noto il commento alla Torà di r. Chizkiyàhu ben Manòach, vissuto in Francia nel XIII secolo, pubblicato a Venezia nel 1524. Il titolo è presumibilmente un gioco di parole sul suo nome e contiene un invito rivolto ai lettori affinché lo incoraggino e ne sostengano l’opera.

Rabbènu Bachyè ben Ashèr (XIII secolo) fu dayàn – giudice, e darshàn – predicatore, a Saragozza. Autore di un monumentale commento alla Torà, completato nel 1291 e pubblicato a Napoli nel 1492, egli interpreta il testo biblico secondo quattro criteri differenti: letterale – peshàt, omiletico – deràsh, razionale – sèkhel, e cabalistico – sod. 

Don Yitzchàk Abravanèl (1437-1508), statista, filosofo ed esegeta, nato a Lisbona. Successe al padre come tesoriere di Alfonso V del Portogallo. A seguito della cacciata degli Ebrei dalla Penisola iberica si trasferì prima a Napoli, successivamente a Monopoli (Puglia) e infine, nel 1503 a Venezia, dove morì. Fu sepolto a Padova, ma la sua tomba è sconosciuta. Fra i suoi numerosi lavori esegetici si annovera il commento Zèvach Pèsach alla Haggadà, completato a Monopoli nel 1496.

R. ’Ovadyà Sforno (c. 1470 – c. 1550). Nativo di Cesena, dopo aver studiato medicina, filologia e filosofia a Roma si stabilì a Bologna, dove fondò un Bet Midràsh che diresse fino alla morte. Era considerato un’autorità halakhica, ma la sua fama resta soprattutto legata al commento alla Torà (Venezia, 1586).

R. Eli’èzer Ashkenazì (1513-1586). Rabbino, esegeta e viaggiatore di origine veneziana. Durante le numerose peregrinazioni di cui la sua vita fu costellata fu in contatto con Comunità di terre diverse, dall’Egitto all’Europa Orientale ed è una testimonianza eloquente dello spirito irrequieto dell’epoca. Il suo commento alla Torà Ma’assè Hashèm (completato a Gniezno e pubblicato a Venezia nel 1583) contiene un’importante digressione sulla Haggadà di Pèsach.

Maharàl. Acronimo di r. Yehudà Loew ben Betzalèl di Praga (c. 1525-1609), celeberrimo talmudista e moralista. Dedicò la sua vita a fornire un’interpretazione razionale dei Midrashìm e delle leggende talmudiche, sostenendo il principio che lo stile apparentemente semplice dei Chakhamìm è in realtà un mezzo per convogliare messaggi profondi. Fra le numerose opere lasciò un commento alla Haggadà e il testo Ghevuròt Hashèm sul significato dell’Esodo dall’Egitto.

Kelì Yekàr. Titolo con cui è noto il commento alla Torà di r. Efràyim Shelomò da Lenczyca (Lunshitz; 1550-1619). Famoso darshàn, succedette al Maharàl come rabbino di Praga ed è sepolto accanto a lui nel cimitero ebraico della capitale boema. È noto per il suo stile lucido ed affascinante: si scaglia soprattutto contro i ricchi che pensano di poter asservire la vita religiosa ai propri mezzi e contro i poveri che non provvedono a se stessi.

Leon da Modena (1571-1648). Veneziano, ma cresciuto a Ferrara, era noto fin dalla più tenera infanzia come una figura eccentrica. Educato tanto nella cultura rabbinica che in quella profana, ha lasciato numerosi scritti in ambo i campi. È qui citato soprattutto per il suo commento alla Haggadà Tzelì Esh che è essenzialmente una versione ridotta dello Zèvach Pèsach di Abravanèl (trad. it.: ed. Morashà, Milano, 2005).

R. ’Azaryà Picho (1579-1647). Veneziano anch’egli, trascorse la maggior parte degli anni nella sua città natale in qualità di darshàn della Scola Spagnola. La sua opera più importante resta il Binà Le’ittìm (Venezia, 1648), raccolta di derashòt – omelie, sulle feste.

Chidà. Acronimo di r. Chayìm Yosèf Davìd Azulài (1724-1806). Nato a Yerushalàyim, già prima dei trent’anni era riconosciuto come un’autorità halakhica. Dopo aver vissuto alcuni anni a Chevròn, dal 1753 al 1757 fu inviato in occidente a raccogliere fondi per conto di quella yeshivà. Un secondo viaggio compì dal 1772 al 1778, dopodiché trascorse il resto della sua vita a Livorno, dove si dedicò alla stesura dei suoi oltre settanta libri. Di essi più d’uno è dedicato a temi inerenti a Pèsach e alla Haggadà.

R. Shimshòn Refaèl Hirsch (1808-1888). Fu il difensore dell’Ortodossia nell’Ebraismo tedesco dell’Ottocento, avendo costituito a Francoforte una Comunità separata rispetto al Riformismo imperante. Acuto pensatore ed educatore, nonché prolifico autore, scrisse un importante Commento alla Torà ed è autore di numerosi scritti pedagogici, alcuni dei quali dedicati ai temi della Haggadà.

R. ’Abdallà Somekh (1813-1889). Dopo aver trascorso diversi anni nel commercio decise di dedicarsi all’apertura di un Bet Midràsh (Bet Zilkha) presso il quale studiarono eminenti discepoli. Autorità halakhica riconosciuta dagli Ebrei di origine baghdadese fino all’India, scrisse fra l’altro l’opera Zivchè Tzèdek sullo Shulchàn ’Arùkh Yorè De’à e il commento Kibbùtz Chakhamìm alla Haggadà.

Ben Ish Chài. Titolo dell’opera più nota di r. Yosèf Chayìm di Baghdad (1835-1909), discepolo di r. ’Abdallà Somekh: si tratta di una presentazione popolare delle halakhòt quotidiane sulla base della parashà settimanale, con cenni cabalistici, risultato delle sue stesse derashòt sabbatiche nel Bet hakenèsset di Baghdad. Autorità halakhica riconosciuta, scrisse circa sessanta opere, fra le quali un commento alla Haggadà.

Mèshekh Chokhmà. Titolo con cui è noto il commento alla Torà di r. Meìr Simcha da Dvinsk (1843-1926). Riconosciuto come un talmudista prodigio fin da giovanissimo, riversa la sua profonda cultura nel suo commento, pervenendo a interpretazioni insieme profonde e originali.

R. Moshe Feinstein (1895-1986), capo della yeshivà Tifèret Yerushalàyim a New York è considerato uno dei più eminenti leaders halakhici del suo tempo. I suoi Responsa Iggheròt Moshè (7 voll.) riflettono tutte le parti dello Shulchàn ’Arùkh e si occupano anche di problemi connessi con la scienza e la bioetica. Ha scritto anche di omiletica, lasciando numerose derashòt (Daràsh Moshè). I commenti alla Haggadà che emergono dai suoi scritti sono stati raccolti nella Haggadà Vayagghèd Moshè con un’edizione adattata in inglese (ArtScroll 1991). Il figlio David, suo successore alla stessa yeshivà, ha parimenti curato un’edizione inglese della Haggadà con introduzione halakhica (Haggadà Kol Dodì, ArtScroll 1990).

R. Yosèf Dov B. Soloveitchik (1903-1993), per quasi mezzo secolo docente di Talmùd e di filosofia ebraica alla Yeshiva University di New York, è stato uno dei più fervidi e originali pensatori ebrei del secondo Novecento. Fra le sue opere si segnalano The Halakhic Man (1944) e The Lonely Man of Faith (1960). Molte delle sue lezioni sono state tratte per iscritto dai suoi discepoli e successivamente pubblicate. Una di queste, Reflections of the Rav a cura di A.R. Besdin, è stata tradotta in italiano (Riflessioni sull’Ebraismo, Giuntina, Firenze, 1998).

R. ’Ovadyà Yosèf (1920- ), una delle maggiori autorità halakhiche viventi. Nato a Baghdad fu educato a Yerushalàyim. Rabbino Capo dell’ Egitto, divenne successivamente Rabbino Capo di Tel Aviv (1968) e dal 1973 al 1983 Gran Rabbino safaradita d’Israèl. Ha scritto due importanti raccolte di responsi (Yechavvè Dà’at e Yabbìa’ Omer) mentre le sue decisioni rituali sono state raccolte dai figli nella collana Yalkùt Yosèf. Ha scritto un commento alla Haggadà di Pèsach (Chazòn ’Ovadyà) con introduzione halakhica.

R. Israèl Meìr Lau. (1937- ) Nato a Pietrikow da un’importante famiglia rabbinica, da bambino fu internato a Buchenwald durante la Shoah. Rabbino Capo di Tel Aviv, è stato Rabbino Capo Ashkenazita dello Stato d’Israèl dal 1993 al 2003. Ha scritto il Commento alla Haggadà Yachèl Israèl (2002).

R. Avìgdor Neventzàl. È il rabbino della Città Vecchia di Yerushalàyim. È autore di un commento alla Haggadà nel volume dedicato a Pèsach della collana Yerushalàyim Bemo’adèha (Yerushalàyim e le sue feste, 2005)