Al termine del Magghid, il “racconto” della Haggadah che precede la cena del Seder, solleviamo il calice di vino e recitiamo un’importante dichiarazione: “Perciò noi siamo tenuti a ringraziare… Colui che ha fatto per i nostri Padri e per noi tutti questi miracoli:
הוציאנו מעבדות לחירות ומשעבוד לגאולה ומאפילה לאור גדול
ci ha tratto dalla servitù alla libertà, dall’asservimento alla redenzione, dalle tenebre a una grande luce”. Che necessità c’è di ribadire lo stesso concetto con almeno tre espressioni diverse? Spiega il No’am Elimelekh (P. Yitrò) che la schiavitù egiziana era stata sentita in almeno tre modi differenti a seconda della suddivisione del popolo ebraico e che in funzione del proprio grado di percezione della schiavitù ciascuno intendeva anche la successiva redenzione. Non tutti la pensavano nello stesso modo. E’ noto infatti che mentre la grande maggioranza dei nostri padri erano stati asserviti a lavori forzati di malta e mattoni e fu loro sottratto il tempo e l’energia per pensare, la tribù di Levì era stata da tutto ciò esentata (Shemot Rabbà 5,20). Ma questo ancora non significa che non fossero in altro modo partecipi della sciagura. Maestri della nazione quali erano, percepivano la schiavitù proprio sul piano del pensiero e dello spirito. Essi furono i primi a rendersi conto di dove avrebbero portato, in termini di sopravvivenza del nostro popolo e della nostra cultura, i provvedimenti via via sempre più restrittivi adottati dal Faraone nei nostri confronti, come il decreto concernente la soppressione di tutti i figli maschi. Furono i Leviti per primi a ribellarsi alla separazione dei coniugi come conseguenza di ciò e in definitiva a ribadire l’importanza di avere bambini, nonostante tutto. C’era poi un terzo livello ancora più alto, quello dei leaders Moshe e Aharon. Questi erano preoccupati dell’aspetto più propriamente politico e religioso. Si rendevano conto che in terra d’Egitto, paese impuro per eccellenza, il Servizio Divino sarebbe stato impossibile. Una caligine separava il popolo dal suo D. Moshe e Aharon la squarciarono, permettendo a tutto il popolo di intravvedere la luce in fondo al tunnel. Ecco dunque la giustificazione della formula tripartita nella Haggadah: “dalla servitù alla libertà” si riferisce alla schiavitù fisica e materiale della maggioranza; “dall’asservimento alla redenzione” concerne la servitù culturale e intellettuale cui i Leviti si ribellarono; “dalle tenebre a una grande luce” riguarda infine il grado più elevato, quello religioso in senso stretto dei leaders della nazione.
Ciò fornisce una risposta alternativa al problema che il Chidà pone commentando un altro passo, questa volta all’inizio del Magghid. Nel Simchat ha-Reghel egli nota che i famosi convitati di Benè Beràq non sono nominati a caso. R. Yehoshua’ era Levì (‘Arakhin 11b), R. El’azar ben ‘Azaryah e R. Tarfon erano Kohanim (Berakhot 27b, Yevamot 86b, Bekhorot 51b), mentre R. ‘Aqivà era figlio di Gherim (Sanhedrin 96b): tutte categorie che per un motivo o per un altro non avevano partecipato alla schiavitù egiziana eppure molti secoli dopo si erano comunque dati appuntamento la notte di Pessach per narrare gli eventi dell’Esodo fino allo spuntare dell’alba. Se costoro che non avevano vissuto la schiavitù –argomenta il Chidà- si sono così dedicati a tramandarne il ricordo, tanto più tutti gli altri che discendono in gran parte da chi ha patito le sofferenze, dovrà impegnarsi a farlo. Ecco che il No’am Elimelekh ci suggerisce invece che nessuno, neppure i Leviti, furono completamente immuni dalla schiavitù. Si tratta piuttosto di livelli di percezione diversi, cui corrispose una redenzione differente.
Durante il Seder si intinge il maròr nel charosset. I nostri Maestri sostengono che anche il charosset sia Mitzwah mangiarlo, ma non hanno istituito una Berakhah per esso proprio perché lo si mangia come condimento del maròr. In un caso del genere, infatti, solo per il cibo principale è richiesta la Berakhah, non per il suo condimento che è considerato secondario. Ci si pone la domanda se il charosset è legato al maror solo sul piano della tavola o anche ad un livello più profondo: nei rispettivi significati. Il Maharal spiega infatti perché il maror non può stare senza il charosset. Il maror ricorda genericamente l’amarezza della schiavitù, mentre il charosset ci rammenta in cosa essa sia consistita materialmente: un lavoro di malta e mattoni! Perché dunque ricorrere all’associazione di due simboli differenti, ancorché complementari? Impariamo anche da qui che sebbene la schiavitù sia stata per lo più costituita dal “duro lavoro”, i due aspetti non necessariamente coincidono. E’ esistita l’amarezza della schiavitù indipendentemente dal “duro lavoro”. Queste fonti ci suggeriscono alcuni insegnamenti. 1) La schiavitù del nostro popolo in Egitto non è stato solo un “duro lavoro” fisico e materiale, anche se questo aspetto era certamente preponderante, ma qualcosa di molto più variegato e complesso. Non è meno rilevante la dimensione intellettuale e spirituale dell’asservimento a una potenza straniera. 2) E’ esistita una dimensione personale della schiavitù, cui corrisponde il fatto che ciascuno ha la sua gheullah. 3) Non lasciamoci attirare e tradire da ciò che in apparenza è dolce, ma in definitiva può rivelarsi più amaro dell’amaro. I nostri Maestri affermano che non c’è lavoro più faticoso del lavoro di malta e mattoni. Significativamente hanno scelto per rappresentarlo il charosset, che degli assaggi del Seder è in assoluto il più dolce. Guardiamoci da facili conclusioni, basate per lo più sulle apparenze!