La Shoah è sempre stata considerata un evento senza precedenti nella storia ebraica. Sono trascorsi quarant’anni da quando il Prof. David Roskies, docente di cultura yiddish al Jewish Theological Seminary di New York, pubblicò Against the Apocalypse. Attraverso una ricca e documentata ricerca di fonti tradizionali e non, questo autore ha collocato l’Olocausto e la letteratura di sommersi e salvati nel contesto di generazioni di risposte ebraiche a drammi, persecuzioni e pogrom. Se il suo è un lavoro scientifico, non è stato in realtà il primo a proporre una visione del genere.
Essendo la nostra storia un susseguirsi di eventi men che lieti, non abbiamo mai perso l’abitudine di confrontare le catastrofi fra loro, talvolta includendo nel novero persino tragedie sventate. Un esempio classico è legato alla liberazione dalla schiavitù egiziana, di cui leggiamo nella Parashah di questa settimana. Scrivendo la Haggadah di Pessach i nostri Maestri paragonano il Faraone all’arameo Lavan che avrebbe coltivato il proposito di ucciderci tutti, laddove il primo si limitò a decretare la soppressione dei soli figli maschi. Peraltro Lavan fu trattenuto da D. stesso e dovette accontentarsi di esercitare un’azione di stalking nei confronti di suo genero Ya’aqov. Gli fece credere di avere buoni sentimenti per poi passare alle minacce; lo insultò, indebolendo la considerazione che la vittima ha di sé; si vantò della sua forza, dicendo che solo D. lo avrebbe fatto recedere da propositi peggiori. Infine espresse la convinzione che Ya’aqov, le mogli e i figli di questi fossero sua proprietà in quanto schiavi (Bereshit 31, 27-29). Tutto estremamente grave, ma nulla di paragonabile a uno sterminio. Ringraziamo D. perché ci risparmia ogni volta cose peggiori!
Molti osservatori non resistono alla tentazione di mettere i pur terribili fatti dei 7 ottobre sullo stesso piano della Shoah ma il paragone, con tutto il rispetto per i nuovi martiri e gli ostaggi, non regge. È necessario richiamare le forze politiche e culturali che dell’antifascismo si fanno scudo alle loro pesantissime responsabilità nell’appoggiare oggi in modo acritico la causa di terroristi e criminali, ma sull’altra sponda – giova ricordarlo – rispuntano i saluti romani: la Shoah e il 7 ottobre restano nella nostra memoria e coscienza due argomenti distinti. Non solo non è dato confrontare la tragedia di un giorno con quella perpetrata per anni. Allora eravamo senza patria, oggi grazie a D. ce l’abbiamo e lottiamo per difenderla e mantenerla, a onta dei nostri nemici di qualsiasi colore. Questo è ciò che conta. Se nel frattempo “la vecchia signora ha mutato pelliccia”, tuttavia, ciò non ci autorizza in alcun modo ad archiviare come dismesse le vecchie fogge.
L’antisemitismo, comunque, riaffiora. Innegabilmente la stessa logica che nel 1938 portò alla promulgazione delle leggi razziste in Italia muove ora le menti di chi demonizza Israele: come se nei confronti di noi ebrei fosse del tutto consentita una diversa formulazione del diritto. Crimini che comunemente vengono condannati senza dubbio né indugio, nel nostro caso si pretende di “contestualizzarli”. Sulla bocca di molti correligionari torna dirompente la domanda: perché tutto questo? È il may kulley hay della tradizione talmudica. La risposta che questa dà al secolare problema è lapidaria: “L’odio di Esaù per Ya’aqov è Halakhah!” (Rashì a Bereshit 33, 4). “Halakhah” significa che è un odio senza motivo. Quattro ragioni spingono i popoli al combattimento e alla violenza: 1) misurare la propria forza, 2) portar via ricchezze e risorse, 3) impadronirsi di un territorio, 4) imporre la propria religione. ‘Amaleq nipote di Esaù (Bereshit 36, 12) ci assalì senza alcuno di questi presupposti: eravamo nel deserto, “indeboliti” economicamente, reduci “stanchi e sfibrati” dalla schiavitù egiziana, mentre egli “non aveva timor di D.” (Devarim 25, 18 e Malbim). Gli antisemiti hanno fatto di volta in volta uso di una o più di queste accuse contro noi Ebrei, ma non si è mai trattato più che di semplici scuse. Essendo un odio immotivato, non ha soluzione. Soprattutto è un odio profondo, che non si presta a essere indorato o rivestito. L’unico modo sensato per affrontarlo è rimaner fedeli a noi stessi: distanziarci dai comportamenti di Esaù e aderire alle tradizioni del nostro popolo, alla Torah e alle Mitzwot.
Sul piano antropologico il fenomeno è più complesso, naturalmente. Nel suo saggio Sul sacrificio (La Giuntina, Firenze, p. 30), Moshe Halbertal scrive riportando René Girard (La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, p. 59 sgg.): “La violenza praticata sulla vittima sacrificale scarica una rabbia violenta su un bersaglio che è vicino al reale soggetto della violenza e tuttavia ben lungi dall’essere ad essa legato. Così un aspetto è soddisfatto, mentre l’altro non è spinto alla ritorsione. È cruciale, secondo Girard, scegliere una vittima adatta – tale che sia al contempo abbastanza vicina e lontana da potere servire da capro espiatorio… Se la vittima è troppo distante dal reale soggetto, è incapace di spostare la rabbia. Se la vittima è troppo vicina, il soggetto reagirà e la violenza sacrificale non interromperà il ciclo, ma contribuirà piuttosto alla sua diffusione”. Se sul piano individuale la spirale di violenza fra gli uomini si arresta solo deviandola su un animale innocente che non ha capacità di ritorsione, sul piano collettivo occorre trovare un gruppo che si presti all’uopo in seno alla società.
Detto in altre parole ciò che si registra in ambito religioso per un soggetto peccatore, avviene anche nel contesto socio-politico allorché un regime, perlopiù autoritario, necessita di scaricare la responsabilità dei propri fallimenti. Prendere di mira i propri concittadini a pieno titolo si ritorce contro il regime stesso, mentre attaccare un nemico esterno che di quella società non fa parte manca l’obiettivo. L’ebreo, in quanto “straniero e residente” (Bereshit 23, 4) a un tempo, assolve pienamente allo scopo. Ciò spiega due cose: 1) perché antisemitismo faccia spesso rima con dittatura: la sua insorgenza indica che le democrazie versano a rischio; 2) perché il fenomeno trovi talvolta riscontro anche fuori dal mondo cristiano e musulmano nel quale si aggiungono radici teologiche specifiche. La giustificazione sacrificale vale inoltre a motivare come un odio così viscerale nei nostri confronti possa essere maturato proprio in un contesto religioso e ispirato, che ci aspetteremmo immune da simili atteggiamenti. E soprattutto lava la coscienza dei colpevoli.
Con la nascita della Medinat Israel, l’antisemitismo, lungi da scomparire, si è trasformato in antisionismo: lo stato ha preso il posto del singolo e della comunità. C’è un passo della nostra letteratura che anticipa l’argomento con decisione ed è il commento del Maharal di Praga al brano della Haggadah relativo a Lavan già citato. Come è noto, per Maharal “la creazione intera è sotto il segno della dualità, della contestazione, della lacerazione… D. e l’uomo, il Creatore e l’universo, il cielo e la terra, l’aldilà e il mondo di quaggiù sono queste alcune delle polarità…” (A. Neher, Il pozzo dell’esilio, Marietti, Torino, p. 27). A loro volta Israel e le altre nazioni rappresentano rispettivamente, scrive Maharal, l’antitesi fra metziut (“essenza”) e he’der (“assenza”) in termini di valori. L’antitesi provoca opposizione, nella misura in cui la “assenza” (Lavan l’arameo) aspira a cancellare ogni “essenza” (Ya’aqov) svuotandola a propria “immagine e somiglianza”. Denunciandoci per genocidio alla corte dell’Aja il paese dell’apartheid invita le nazioni europee, facendo leva su Gaza, a sgravarsi definitivamente dell’insopportabile fardello della Shoah, dicendoci: “Anche tu sei come uno di loro” (’Ovadyah v. 11). “Ma il S. B. ci salva dalle loro mani”.
“Per tre crimini di Gaza, ma specialmente per il quarto non la lascerò impunita” (’Amos 1, 6). La Parashah di questa settimana esordisce parlandoci del cuore del Faraone, indurito da D. in occasione delle ultime piaghe. Come è possibile che il D. di misericordia lo abbia costretto nel precipizio? Secondo due commentatori veneziani del Seicento, R. Eliezer Ashkenazì e R. ’Azaryah Picho, D. conosce il pensiero distorto del Faraone e sa che è questi a non credere nel libero arbitrio. Il re d’Egitto ritiene che non sia da prendere in considerazione un D. che domandi di ascoltare la Sua voce (cfr. Shemot 5, 2) anziché comandare le Sue volontà in modo assoluto e autoritario. “I beffardi Egli sbeffeggia” (Mishlè 3, 34): è arduo, se non impossibile, avviare trattative diplomatiche con chi sprezza come debole chiunque ricorra al dialogo e al negoziato. L’Occidente, prima o poi, se ne dovrà avvedere. Che D. ci assista!
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