Nella Parashà di Pekudè leggiamo: “E tutto il lavoro del Mishkan fu completato, e i figli d’Israele fecero tutto ciò che Hashem aveva comandato loro, così fecero.” (Shemot 39:32). Perché la Torà ci deve dire che il popolo ebraico fece tutto ciò che D-o aveva comandato loro di fare? E perché il versetto si ripete, sottolineando il fatto che fecero tutto ciò che era stato loro richiesto? Come se non bastasse, la Torà non si ferma qui: “E tutto ciò che Hashem comandò a Moshe, così fecero i figli d’Israele: tutto il lavoro.” (Shemot 39: 42) Ancora una volta, la Torà sottolinea che il popolo ebraico ha fatto tutto, il che sembra ridondante. La Torà, successivamente fa un ulteriore passo avanti: “E Moshè vide tutto il lavoro, ed ecco, lo fecero proprio come Hashem aveva comandato, così lo fecero, e Moshè li benedisse“. (Shemot 39: 43) Perché questo versetto ora, all’improvviso? Qual è la natura di questa benedizione? Perché Moshe dice grazie al popolo ebraico per aver fatto ciò che D-o ha chiesto loro? Il Mishkan era stato costruito per il beneficio dell’uomo, non di D-o. Perché benediregli ebrei per aver realizzato quello che era essenzialmente un progetto per il loro beneficio? Ed infine, se il Mishkan è stato in effetto costruito da Betzalel, perché ringraziare tutto il popolo?
La risposta potrebbe essere meno facile di quel che si pensa. Nel primo versetto della Parashà leggiamo: “Queste sono le contabilità del Tabernacolo..” (Shemot 38:21). Completato il Mishkan, la Torà ci fornisce un resoconto di quanto raccolto. Perché c’è bisogno di dedicare così tanto spazio per un elenco così dettagliato? La Torà dovrebbe essere una guida per la vita. Perché dobbiamo conoscere questi dettagli?
Inoltre, anche la fine della Parashà, che spesso si riferisce al tema e allo scopo delle idee contenute nella Parashà stessa, necessita di spiegazione. Ancora di più considerando il fatto che questa Parashà è quella che chiude il libro di Shemot. La Torà ci dice (Shemot 40:34-38) che una nuvola coprì la tenda del convegno e “la gloria di D-o riempì la tenda“. E una volta che la gloria di D-o riempì la Tenda, Moshè non poté entrarvi. Questa nuvola, che rappresenta la Gloria di D-o, era anche l’indicatore per il popolo ebraico se dovesse partire o accamparsi. Perché terminare così il libro di Shemot?
Per provare a rispondere a tutte queste domande dobbiamo vedere le cose da un punto di vista più ampio.
Il Netziv sottolinea che la tendenza della maggior parte delle persone che inseguono grandi sogni è quella di andare ben oltre i compiti a portata di mano, e tendere a farsi così “trascinare” dal processo, fino a dimenticare quale fosse lo scopo primario del processo. Il preludio a questa sfida si trova nella Parashà di Vayakhel. Le persone erano così eccitate alla prospettiva di costruire il Mishkan, e forse così commosse dall’opportunità di espiare il loro errore nella costruzione del vitello d’oro, che le loro donazioni crescevano a un ritmo talmente sbalorditivo che gli artigiani responsabili dell’esecuzione del progetto non riuscirono più a tenere il passo. “E dissero a Moshe: la gente sta portando troppo, c’è più materiale di quanto sia necessario per il lavoro che D-o ci ha comandato di fare.” (Shemot 36:4) Ancora più incredibile è la risposta di Moshe: “E Moshe comandò e la parola fu diffusa in tutto l’accampamento dicendo: che ogni uomo e donna non faccia più lavoro per la donazione al sacro, e la gente cessò di portare.” (Shemot 36:6). Cosa potrebbe esserci di sbagliato nel fatto che la gente continuasse a perseguire quella che era ovviamente una mitzvà molto importante?
Forse ciò che era veramente alla base di questa risposta non era quello che veniva portato, ma il come. Quello che turbava Moshe era che le persone erano così prese dallo zelo di donare a D-o, che avevano perso ogni collegamento con la costruzione effettiva del Mishkan, incentrandosi su di loro e sul loro dare, piuttosto che su D-o e su come portare D-o nel mondo. Questo ci riporta alla Parashà di questa settimana. Sebbene questa sia una lezione preziosa, è importante, nel processo di connessione (o riconnessione) agli ideali e agli obiettivi del progetto, non dimenticare il potere e l’importanza di tutti i dettagli. Quindi il punto della Parasha di questa settimana è che se i dettagli sono solo “il peso di tutte le faccende e i dettagli che devono essere svolti” come descritto sopra, allora ci stiamo perdendo la parte più bella del processo. La vera sfida è abbracciare il dettaglio come parte di un quadro più ampio. Quando Moshe benedice il popolo per l’esecuzione di tutti i dettagli, ciò che sta realmente apprezzando è il modo in cui sono stati eseguiti tutti i dettagli. Quando il popolo ebraico riesce a vedere D-o in tutti i dettagli, solo allora può dire di avere padroneggiato l’arte di portare D-o nel mondo, ed è questo che è il punto. Ed è esattamente quello di cui parla questa Parashà, alla fine del libro di Shemot. Questo libro ha tre fasi fondamentali che ne costituiscono il tema. In primo luogo, una famiglia di fratelli che vende loro fratello come schiavo, diventa una nazione resa sensibile alla sofferenza umana da duecento anni di schiavitù. L’inizio del libro di Shemot riguarda la creazione di una grande nazione. Ma cosa dovrebbe fare questa nazione? A cosa serve la libertà? La seconda parte del libro è la ricetta del come, con la libertà appena acquisita, possiamo fare la differenza nel mondo: la parte centrale del libro di Shemot riguarda il dono della Torà. Acquisiamo le mitzvot, che sono un modello per rendere il mondo un posto migliore. Questo ci porta alla terza fase: l’obiettivo non è trovare D-o al di là di questo mondo, l’obiettivo è portare D-o nel mondo. Il popolo ebraico ha sempre cercato di rendere il mondo un posto migliore facendo spazio a D-o, e questo è il significato del costruire il Mishkan. E se questa settimana concludiamo questo processo di creazione di spazio per D-o nelle nostre vite, allora scoprire l’equilibrio e l’armonia tra il potere dell’ideale e la bellezza del dettaglio è il pezzo cruciale per far funzionare tutto. Se il fare nostra questa idea e portarla nelle nostre vite consente a ciascuno di noi di diventare un Mikdash Me’at, un santuario vivente per D-o in questo mondo, questo è vero anche a livello nazionale.
Rav Kook scrive che ci sono due componenti dell’ebraismo, che lui chiama Clalim, o principi in generale, e Pratim, i dettagli di quei principi. I Clalim sono tutti i bellissimi ideali, sogni e obiettivi dell’ebraismo: amare il prossimo come se stessi, perseguire la giustizia e onorare i propri genitori. I Pratim sono tutti i dettagli, come se si è obbligati ad alzarsi quando un genitore entra nella stanza e quanto sforzo dobbiamo effettivamente fare per restituire la sciarpa che qualcuno ha dimenticato sull’autobus. Nel processo di garantire che i dettagli non venissero dimenticati, suggerisce Rav Kook, abbiamo perso il contatto con i Clalim. Rischiamo di essere così presi dai dettagli da perdere di vista gli obiettivi e i sogni, la bellezza e l’ispirazione.
Stiamo vivendo in un’epoca in cui c’è una vera sete di scoprire la bellezza e il potere del Pratim, i dettagli che alimentano il Clalim, gli obiettivi e i sogni dell’ebraismo. Questa è quindi la sfida della Parashà di questa settimana: possiamo “ricreare” il popolo ebraico come doveva essere, che vede la bellezza e il valore in entrambe queste componenti cruciali dell’ebraismo. Questo è importante per la nostra identità di persone e per la nostra identità come popolo. Ed è questo il significato della ripetizione nella Parashà del fatto che gli ebrei fecero come D-o aveva comandato e del versetto in cui leggiamo che Moshe benedice il popolo. Proprio il fatto che il popolo, nonostante il rischio che questo potesse accadere, non perde di vista i Clalim e i Pratim, permette a Moshe di benedire gli ebrei, di suggellare il loro processo di nascita come vero popolo, il dare un significato alla loro libertà dalla schiavitù in Egitto. Questo è un insegnamento ancora attuale, nonostante l’assenza del Bet haMikdash o del Mishkan. Si tratta di un insegnamento ed, insieme, di una sfida a creare in noi stessi un Mikdash Me’at, un santuario vivente. Attraverso le mitzvot, attraverso atti di chesed, attraverso atti di giustizia, possiamo ambire a diventare la versione migliore di noi stessi, a portare più luce in questo modo e ad ispirare il prossimo a fare altrettanto.