Parla la scrittrice ebrea sudafricana
MARIA SERENA PALIERI
Nadine Gordimer ha cara la distinzione tra «letteratura» e «informazione» e tra «scrittura» e «comunicazione». Racconta che è reduce da una visita a Timbuctu, in Mali, in compagnia di un filantropo americano che senza troppo discernimento ha donato all’antica città, protetta per le sue meraviglie di fango dall’Unesco ma povera di elettricità, una coppia di computer risultati lì inutilizzabili: «La tecnologia moderna è magnifica. Ma in questo caso sarebbe stato meglio se quest’uomo avesse regalato libri, che non hanno bisogno di spine e batterie, che sono lì e che, se vuoi tornare al passato, si lasciano sfogliare anche all’indietro… E la tecnologia moderna comunque serve a comunicare ma ha poco a che fare con lo scrivere narrativa» dice. La distinzione torna quando, a proposito della nuova letteratura africana, osserva: «Una cosa è il mondo attuale dell’informazione, tutt’altra cosa l’infinità varietà di voci che possono esprimersi in poesia e narrativa. L’informazione ama comunanze e analogie, ma se troppi scrittori operano «in concerto», quella, dio ce ne scampi, è propaganda».
È un’uscita per un pizzico paradossale, dopo il modo in cui il Festivaletteratura ha dato inizio alle danze mercoledì pomeriggio: proprio con lei, l’ebrea bianca sudafricana insignita del Nobel nel 1991, e un’eterogenea pattuglia di scrittori, la sudafricana nera Natalia Molebtsi, la nigeriana naturalizzata olandese Chika Unigwe, l’ugandese ex-ministro Timothy Wangusa, chiamati a rappresentare genericamente l’Africa, continente dalle mille lingue diverse. Mantova però, in questi giorni, promette anche altri incontri «africani» più mirati: quattordici gli scrittori in arrivo da tutte le latitudini, dal Maghreb al capo di Buona Speranza, tre gli appuntamenti con le giovani voci della «township poetry» , mentre sabato colloquieranno tra «africani d’Europa» la fiamminga Unigwe, il congolese-italiano Jadelin M.Gangbo e la marocchino-catalana Najat El Hachmi. Nadine Gordimer debuttò nel 1949 con la raccolta Face to face ed è da 60 anni una maestra della short-story. Ultima raccolta uscita in Italia Beethoven era per un sedicesimo nero, ma Feltrinelli ha rimandato in libreria anche Il conservatore, romanzo del 1974. Camicia alla coreana color pesca, capelli grigi stretti in una svelta coda, si fa forte dei suoi 86 anni per concedersi solo a un incontro collettivo e a nessun tête-à-tête. Ecco gli esiti.
Qual è l’attualità del suo romanzo «Il conservatore» a 35 anni dall’uscita?
«Tratta il tema della terra, e a chi essa appartenga. C’è un personaggio, un nero, che possiede solo quella in cui verrà sepolto. All’epoca la terra apparteneva ai colonialisti, non a chi la lavorava. In parte è ancora vero. Allora cercavo di scrutare il futuro in una palla di vetro».
Il senso di colpa è un tema centrale nella narrativa e nel cinema dei sudafricani bianchi. Quante generazioni ci vorranno perché scompaia?
«Non siamo gli unici a coltivarlo. Proviamo senso di colpa per l’apartheid così come i tedeschi lo provano per il passato nazista. Basta leggere Guenter Grass. È un tema enorme. Come conviverci? E che cos’è? Queste sono le domande da farci».
Il senso di colpa cresce, in noi italiani che non condividiamo la politica dei respingimenti, per le centinaia di cadaveri che stanno trasformando il Mediterraneo in un gigantesco cimitero africano. Lei nell’«Aggancio», romanzo del 2003, ha affrontato il tema dell’immigrazione clandestina. Sentirsi colpevoli serve a qualcosa?
«Dipende da cosa provoca: solo un’ondata emotiva? Anche da noi in Sudafrica bussano a migliaia, sono i profughi dallo Zimbabwe di Mugabe e, bianchi e neri, ci sentiamo in colpa. Un africano in fuga provoca universalmente questo sentimento. Con la povertà, e ora con la recessione economica, poi, fioriscono altri sentimenti, la rivalità per l’ultimo centesimo e l’ultimo centimetro di spazio. Dobbiamo chiederci: questi fratelli e sorelle, esseri umani come noi, da cosa scappano? Da quale persecuzione politica, economica? La strada, ma non basta una generazione, è la soluzione dei conflitti, la strada è globale, è soprattutto nelle mani dell’Onu».
A livello globale non trionfa piuttosto l’economia canaglia?
«Purtroppo sì. In Italia dopo l’elezione sono stati accantonati i dubbi sulla carriera passata del presidente Berlusconi. Per non entrare nel merito, ora, di altre questioni sulla sua vita intima. Il nostro neopresidente, Jacob Zuma, si è visto archiviare le sue passate cause per corruzione. Sono esempi terribili. In democrazia nessuno dovrebbe sentirsi al di sopra della legge»
Ha firmato l’appello per la libertà di stampa nel nostro Paese. Ritiene che l’Italia costituisca oggi un’anomalia a livello internazionale?
«E strano che un presidente del Consiglio possieda televisioni e giornali. Voi, professionisti dell’informazione, vi sentite liberi di esprimervi?».
Che speranze ha acceso in Sudafrica l’elezione di Obama, primo presidente nero nella quasi totalità dei suoi «sedicesimi»?
«Neri e bianchi, gli diciamo ‘benvenuto’. Ma non giudichiamolo dal sangue, bensì dagli atti. E non dimentichiamo che è stato eletto in un momento terribile. In me permane fiducia al cento per cento nei suoi confronti. Anche se, mi dico, vorrei avesse consiglieri migliori».
L’Unità – 11/09/2009