Rav Giuseppe Laras
La testimonianza dell’Esodo ci presenta Mosè come colui al quale Dio chiede di guidare il suo popolo dalla schiavitù alla libertà e come colui attraverso il quale viene donata la Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai. Secondo la tradizione rabbinica è proprio questo il momento in cui il popolo di Israele comprende il senso della particolare esperienza che sta vivendo e della vocazione a cui il Signore l’ ha destinato “separandolo” dagli altri popoli: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce a custodirete la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-6). Si tratta quindi di passare dalla servitù di Faraone al servizio del Signore che ha ascoltato il lamento del suo popolo oppresso e ha deciso di liberarlo rimanendo fedele alle sue promesse (Es 3, 7-10 e Gen 12, 1-4).
Ogni manifestazione di Dio è un evento trascendente di fronte al quale l’uomo è chiamato a riconoscerne la grandezza e la sproporzione rispetto alla propria creaturalità, per questo anche Mosè, a cui il Signore si rivela attraverso il roveto ardente, “nasconde la faccia” poiché teme di “guardare” verso di Lui (Es 3, 6). Tuttavia è proprio Mosè ad essere definito dalla Scrittura e dalla tradizione rabbinica come colui al quale Dio concede una vicinanza e una “visione” della Sua trascendenza solitamente impossibile e pericolosa (Es 19, 12 e 33, 19-23; Esodo RabbàXXVIII, 6, Levitico Rabbà 1,14), per questo egli può “salire” sul monte e “parlare” con il Signore che gli “risponde” con “una voce” alla quale “può reggere” (Es 19,19; Esodo Rabbà V, 9).
Tutto il popolo rimane invece ai piedi del Sinai ove comunque i segni della teofania sono evidenti: tuoni, lampi, nube densa, forte suono di tromba (Es 19, 16), ma soprattutto fuoco: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace” (Es 19,18). Alcuni commenti colgono un particolare rapporto tra la parola del Signore che si rivela e il fuoco che accompagna tale rivelazione , caratteristica che la tradizione ritiene sia comune a molte teofanie (Es 3, 26 e Gen 15, 17) e alle parole stesse della Torà, come sottolineato in un autorevole commento al Deuteronomio che, a un certo punto, afferma: “infatti entrambi (fuoco e Torà) furono dati dal cielo ed entrambi sono eterni” (Sifrè Deuteronomio 143a).
Siamo quindi di fronte ad un evento divino che, in questo modo, si dà una volta per sempre nell’orizzonte di una mediazione che coinvolge in maniera particolare Mosè, in quanto la rivelazione a lui concessa è la sorgente a cui tutti i profeti successivi hanno attinto: “Ciò che i profeti erano destinati a profetizzare alle generazioni avvenire lo ricevettero dal monte Sinai” (Esodo RabbàXXVIII, 6).
Il dono della Torà non solo è destinato a permanere nel tempo, ma è offerto per essere accolto e vissuto. La tradizione rabbinica, a tale proposito, sottolinea due aspetti importanti. Da una parte precisa che Dio si è espresso nelle “settanta lingue dell’umanità” in modo che tutti i popoli potessero comprendere (Esodo RabbàV,9), dall’altra però fa notare che solo il popolo d’Israele ha accolto i precetti rivelati nella prospettiva di un insegnamento per la vita (Sifrè al Deuteronomio, Pisqa 343).
La Scrittura infatti testimonia che tutto il popolo “vede” i segni della teofania sinaitica ed è testimone di ciò che Dio rivela a Mosè (Es 20, 18), e tutto il popolo si impegna solennemente ad accogliere la Torà con la seguente affermazione: “Tutto ciò che il Signore ha detto/rivelato lo eseguiremo (n’asè) e lo ascolteremo (wenishma’) (Es 24, 7). Gli ebrei che pronunziano queste parole sono gli stessi che hanno vissuto un’esperienza di liberazione unica nel suo genere, e il Dio che li ha liberati mostrando la sua fedeltà alle promesse non può che volere il loro bene, per questo insegna come custodire il patto di Alleanza affinché il medesimo possa durare nel tempo.
Per questo il Suo insegnamento va innanzitutto vissuto e, in questo contesto, “ascoltato”, cioè continuamente ricompreso e riconsiderato alla luce dei nuovi eventi della storia Poiché, come la Torà stessa precisa, “non è più in cielo” ma nelle mani degli uomini affinché possano continuare a “scegliere la vita e il bene” (Dt 30, 12-19).
Tutto ciò implica la necessità di comprendere sempre più in profondità una parola che si dà agli uomini nei suoi percepibili molteplici aspetti. Nel Salmo 62 non a caso di legge: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (Sal 62,10). La tradizione rabbinica insegna che da ciò si deduce che un versetto della Scrittura può avere diverse interpretazioni, che vanno intese come le scintille prodotte da un martello che spezza la roccia ( Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a; Shabbath 88b).
È pertanto importante che la tradizione continui a discutere e ad interrogarsi su come continuare a rimanere fedeli all’insegnamento di libertà del Sinai. Non a caso gli insegnamenti rabbinici, giocando sull’assonanza dei termini ebraici charut(inciso) e cherut (libertà), insegnano a considerare i precetti della Torà “libertà” su tavole anziché prassi “incisa” su tavole (Mishnà, Avot VI, 2), ribadendo così che l’insegnamento rivelato va accolto e vissuto in quanto proveniente dall’unico Dio capace di liberare e di trasformare una storia anonima e perdente in una storia di salvezza.
Ecco allora ciò di cui il popolo ebraico è ancora oggi testimone tra le genti: una libertà che porta all’impegno nella fedeltà al dono della Torà ricevuta attraverso Mosè capace di “parlare con Dio”, rivelazione che, come ben ricorda Elia Benamozegh, comprende anche i precetti dati da Dio a Noè dopo il diluvio, i quali costituiscono l’insegnamento per i “giusti” come lui, cioè i “gentili amati da Dio i cui meriti fanno la prosperità tra le nazioni” (E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti, Genova, 1990, pp. 209-240).
17 gennaio 2003