A PARIGI, CENTRE POMPIDOU, “MOÏ WER”, A CURA DI JULIA JONES. Cambiando continuamente nome e residenza, e forme d’arte, l’artista fu segnato, innanzitutto, dalla lezione del Bauhaus (Albers, Moholy-Nagy). Capolavoro sperimentale, “Ci-contre”
Moshe Raviv si stabilisce nel villaggio di Safed, nel nord di Israele, nel 1953. È una città particolare nella storia dell’ebraismo. Dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492, è stato un importante centro della Kabbalah e Halakha, e ha ospitato la prima tipografia del Medio Oriente nel XVI secolo. A Safed, Moshe Raviv lascia il lavoro di grafico, fotografo ed editore impegnato per la propaganda sionista, per ritornare alla pittura, principalmente a olio, ma anche al disegno e all’incisione.
Sebbene alcune delle opere di Raviv includano riferimenti figurativi, sono per lo più astratte, e ricordano un certo espressionismo inizi secolo e il linguaggio formalista del modernismo, come si nota in Omaggio al Bauhaus (1986) e Omaggio a Paul Klee II (1994). Inoltre i suoi dipinti rivelano l’influenza della letteratura popolare yiddish, ma anche della Kabbalah: infatti, la scelta cromatica, come delle luci e delle ombre, è spesso la traduzione pittorica di atmosfere simboliche offerte da questa tradizione esoterica.
Intanto, nel 1968, Ann e Jürgen Wilde, importanti collezionisti tedeschi di fotografia anni venti e trenta, entrano in possesso del patrimonio di Franz Roh – noto professore di Storia dell’Arte a Monaco nonché direttore della collezione Fotothek. Trovandosi tra le mani il menabò definitivo di un’opera di grande pregio dal titolo Ci-contre, si mettono immediatamente alla ricerca dell’autore, tale Moï Wer.
La coppia Wilde ne riceve notizie utili dal tipografo Jan Tschichold, in Svizzera, che in una lettera del 1972 li informa di una sua corrispondenza con Moï Wer (il cui vero nome era Moshe Vorobeichic) agli inizi degli anni trenta e alla fine degli anni quaranta. Poche settimane dopo, Tschichold invia l’indirizzo di Tel Aviv, trovato in una successiva corrispondenza con lui, nel 1953, e che stabilisce che Moshe Vorobeichic ha cambiato una volta ancora il proprio nome per quello di Moshe Raviv. Ed è a questo nome che i collezionisti Wilde scrivono il 13 marzo 1972, nella speranza di trovarlo. Pochi giorni dopo, Moshe Raviv risponde: «La vostra lettera è stata una piacevole sorpresa. Esatto: Raviv è l’ex Moï Wer».
Ricapitolando: Moshe Vorobeichic, Moï Ver e Moshe Raviv sono la stessa persona, che nel corso della sua vita (1904-’95) ha cambiato costantemente luogo di residenza: Vilnius, Dessau, poi Parigi, Tel Aviv e Safed. E nel contempo ha cambiato frequentemente la sua visione artistica e il suo mezzo espressivo, passando dalla pittura alla fotografia, alla grafica, per tornare infine alla pittura.
Il Centre Pompidou gli dedica una nutrita retrospettiva, fino al 28 agosto (la mostra poi continuerà a Varsavia e a Tel Aviv). Riunisce più di trecento opere e documenti, tra fotografie, dipinti, disegni e stampe, oltre a un gran numero di inediti: Moï Wer, per la cura di Julia Jones (catalogo curato da Julia Jones e Karolina Ziebinska-Lewandowska, Editions du Centre Pompidou, pp. 280, ca. 230 illustrazioni, € 42,00).
La mostra ci racconta che il 1931 è stato un anno importante per Moï Wer. Mentre lavora alla sua serie fotografica più sperimentale, Ci-contre (che dopo varie peripezie viene pubblicata postuma dalla coppia Wilde nel 2004), realizza due libri molto diversi tra loro, ognuno dei quali riscuote grande consenso: The Ghetto Lane in Wilna e Paris. 80 photographies de Moï Wer. Il primo è un reportage sulla vita nel vecchio quartiere ebraico di Vilnius (allora considerata la Gerusalemme lituana); il secondo è un libro virtuoso dedicato a Parigi che raccoglie numerosi fotomontaggi, con un’introduzione di Fernand Léger.
Lo storico dell’arte Herbert Molderings, che in uno studio monografico, per primo, nel 1987, ci dice Wer ist Vorobeichic? (dal tedesco: Chi è Vorobeichic?), collega questo momento d’oro della produzione di Moï Wer con gli insegnamenti ricevuti al Bauhaus, a Dessau, nei due semestri 1927-’28, in particolare da Josef Albers e László Moholy-Nagy. È stato quest’ultimo a esprimere l’idea che «la salvezza della fotografia viene dalla sperimentazione»; e le fotografie di Moï Wer, scattate con una Leica da prospettive radicali, e i fotomontaggi, impaginati con grande forza costruttiva, ne sono un fulgido esempio.
Dal 1927 al 1929 Moï Wer ritorna di tanto in tanto a Vilnius (allora ancora in Polonia), dove risiede la sua famiglia. Le fotografie che lì scatta riflettono la vita delle città e dei ghetti ebraici. Sono registrazioni istantanee di scene di strada, gesti, espressioni, volti, frutto di un’osservazione fine e attenta, unita a una certa compassione per l’umano.
Ed è in fondo proprio questa eterogeneità tra la nuova visione dell’artista e il suo atavico soggetto a fare delle sue fotografie delle potenti testimonianze, monumenti eretti in omaggio a un popolo e alla sua cultura completamente annichiliti alla fine del secondo conflitto mondiale (come la maggior parte dei luoghi fotografati, tra cui la Grande Sinagoga di Vilnius).
Moï Wer espone la serie nel 1929, prima all’Unione degli artisti ebrei a Vilnius, poi al 16° Congresso sionista a Zurigo. Notato in questa occasione, gli viene affidata la pubblicazione dell’opera The Ghetto Lane in Wilna dall’editore svizzero Orell Füssli, in tre versioni bilingue: ebraico/inglese, ebraico/tedesco e yiddish/tedesco. Questo libro racconta la vita quotidiana di una delle più grandi comunità ebraiche dell’est Europa, con un trattamento innovativo delle immagini che ne fa un’importante documento sia fotografico che storico.
Dopo Dessau, nel 1929, Moï Wer si trasferisce a Parigi, dove abita a Montparnasse fino alla sua partenza per la Palestina, nel 1934. Lì diviene intimo amico di André Malraux e Fernand Léger, già noto per il suo lavoro fortemente influenzato dalle tecniche della nuova era industriale.
Fotografando Parigi, Moï Wer annuncia il passaggio dal resoconto visivo all’interpretazione della vita e della città, attraverso collage e immagini composite che offrono vivide rappresentazioni del dinamismo della metropoli. Utilizzando viste dall’alto, sovrapposizioni, ripetizioni di frame, offre di Parigi una visione caleidoscopica e frenetica, con la sua metropolitana, le ciminiere delle fabbriche e la sua folla.
Paris. 80 photographies de Moï Wer è considerata una delle più importanti opere di fotografia d’avanguardia. Le tecniche applicate presentano affinità con la pratica dell’insegnamento di Josef Albers, il quale incoraggiava lo studio delle analogie e delle difformità tra le superfici degli oggetti e dei corpi, l’uso del ritaglio, della composizione della griglia, dell’opposizione tra astrazione e figurazione, degli effetti di luce. E anche il cinema sperimentale, come quello di Fritz Lang, ha avuto la sua parte di ispirazione nella realizzazione del libro (contrariamente a quanto ne scrive in prefazione Léger).
Ma Moï Wer non ha potuto veder pubblicato il suo libro più sperimentale: Ci-contre. Nel 1932, Franz Roh lo informa del suo desiderio di pubblicarlo, ma dopo l’ascesa al potere dei nazisti non è stato più pensabile. Allo scoppio della guerra, l’artista considerava perduto il proprio progetto, e tra il 1940 e il 1945, ormai in Palestina, ne abbozza una seconda versione dove il confronto serrato umano-inorganico cede il passo a una pulsare più vitale e aneddotico. Meno «natura morta», insomma, e più «umanesimo». Ma in entrambi i casi una dichiarazione d’amore per l’arte dell’impaginazione.
https://ilmanifesto.it/moi-wer-ebreo-errante-nellavanguardia-fotografica