CARLO PONTORIERI*
Oggi la rucola o rughetta è comunemente usata in cucina. Esiste anche una versione della pizza napoletana a cui si aggiungono, appena uscita dal forno, scaglie di parmigiano, prosciutto crudo e appunto rughetta: don Antonio Starita, a Materdei, l’ha chiamata pizza “Miss Italia”; Ciro Oliva, alla Sanità, la propone invece bianca; mentre Ciro Salvo si è allargato fino alla pizza carpaccio e rucola; Enzo Coccia invece, dalla sua cattedra in via Caravaggio, offre una variazione con salsiccia e ricotta di bufala.
Se i grandi maestri della pizza napoletana hanno avallato la rucola sulla pizza, vuol dire che è giusto e doveva andare così.
Eppure mia nonna (calabrese, nata il 10 maggio 1900), nonostante i miei reiterati inviti e insistenze, si rifiutava di mangiare la rughetta o di aggiungere la rughetta alla sua insalata. Era evidentemente un rifiuto non motivato dal gusto, piuttosto una cosa pregiudiziale, una sorta di sua obiezione di coscienza. Finché un giorno, a fronte del mio ennesimo invito, non sbottò:
“La rucola è una cosa da malefemmine!”
Io trasecolai e lei non aggiunse altro, chiudendosi in uno sdegnato silenzio.
Facciamo un salto indietro di vari secoli.
Il Talmud (che significa «insegnamento», «studio», «discussione»), è un’imponente enciclopedia del sapere ebraico, in 63 trattati, un caleidoscopico inventario delle discussioni dei maestri dell’ebraismo, attraverso moduli argomentativi tipici, fondati su domande e risposte, opinioni e confutazioni. Nelle sue parti fondamentali (Mishna e Ghemara) fu redatto tra il III e il V secolo.
Uno degli eventi editoriali più importanti degli ultimi anni è la pubblicazione in lingua italiana del Talmud Babilonese: un progetto che ha visto protagonisti i ministeri dell’Istruzione e dell’Università, il CNR e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – Collegio Rabbinico Italiano. Ad oggi sono stati tradotti i trattati Rosh haShanà (Capodanno), Berakhòt (Benedizioni), Ta’anit (Digiuno), Qiddushìn (Matrimonio), Chaghigà (Festività), e infine Betzà (Giorno festivo), presentato proprio all’inizio di questo mese.
E nel Talmud ritroviamo la rughetta, in un curioso dialogo tra un misterioso imperatore Antonino, sull’identificazione del quale si sono scervellati studiosi ed esegeti per secoli, e il rabbino Yehuda HaNasi, uno dei maestri dell’ebraismo, detto anche il Santo, o semplicemente il Rabbi, perché considerato dalla tradizione il Maestro per eccellenza.
È certo una cosa curiosa questa amicizia tra il Rabbi e l’Imperatore romano, in un’epoca che aveva appena visto la feroce contrapposizione tra ebraismo e Roma, fino alla distruzione del Tempio da parte delle legioni di Tito, e poi la stessa Gerusalemme rasa al suolo e rifondata da Adriano, con successivo divieto per i Giudei di risiedervi. Sembra il segno di un’atmosfera diversa tra i due popoli, a cavallo tra la dinastia degli Antonini e quella dei Severi, tra II e III secolo.
Il testo che ci interessa è tratto dal trattato Avodah Zarah, ancora non tradotto in italiano, ma che riprendo dalla versione inglese di William Davidson (dal sito sefaria.org).
La Ghemara racconta: Antonino aveva una figlia il cui nome era Gira, che aveva compiuto un’azione proibita, cioè, aveva avuto rapporti promiscui. Antonino inviò una pianta di rucola [gargira] al rabbino Yehuda HaNasi, per alludere al fatto che Gira aveva agito in modo promiscuo [gar]. Il rabbino Yehuda HaNasi gli mandò del coriandolo [kusbarta], che Antonino intese come un messaggio per uccidere [kos] sua figlia [barta], poiché era passibile di pena di morte per le sue azioni. Antonino gli mandò dei porri [karti] per dire: sarò tagliato fuori [karet] se lo faccio. Rabbi Yehuda HaNasi poi gli mandò una lattuga [hasa], cioè Antonino avrebbe dovuto aver pietà [as] di lei.
Si tratta di un dialogo a distanza tra il rabbino e l’imperatore, tutto giocato sulla simbologia dei vegetali: il Talmud offre un’interpretazione di tipo linguistico sul codice osservato tra i due, ma non si può non notare che se la lattuga era considerata nel mondo antico un alimento che sopisce la rabbia e le passioni; il porro deve essere privato della parte verde per essere edibile, e dunque va tagliato; il coriandolo per molti ha un sapore disgustoso; ma quello che appare stupefacente è che la rucola è associata, come faceva mia nonna, a una certa libertà femminile.
Infatti, la rucola era già conosciuta nel mondo antico per la sua attività protettiva verso lo stomaco, le proprietà diuretiche, ma soprattutto per i suoi poteri afrodisiaci. Columella scrive della rucola “salax”, eccitante, sessualmente stimolante, “che si pianta accanto al protettore degli orti, Priapo, e spinge esitanti mariti verso Venere” (Res rustica, 10, credo sia inutile ricordare come era rappresentato Priapo, dio del desiderio, dai Romani). Plinio il Vecchio la consiglia invece associata alle rape, con analoga finalità (Naturalis Hist. XX, 9), anche se ne riconosce il potere stimolante anche in purezza (ivi, X, 182); lo stesso assevera Celso (De medicina, 4, 28). Marziale invece, da par suo, irride un tale Luperco, su cui neppure la rucola produce più effetti significativi (de Spectaculis III, 75).
D’altro canto, sempre la rucola, come il prezzemolo, nell’Antichità era usata anche come componente per decotti e beveraggi anticoncezionali e abortivi.
In realtà, la questione per l’imperatore Antonino del Talmud non era da poco: una legge voluta da Augusto, la lex Iulia de adulteriis coercendis aveva previsto l’obbligo di uccisione della moglie o della figlia colta in flagranza di adulterio, pena l’accusa di lenocinio, cioè di sfruttamento della prostituzione, per l’uomo, padre o marito. E in tale legge incappò la stessa figlia di Augusto, Giulia, leggendaria indipendent woman della Roma antica, che riuscì sì a sfuggire alla pena capitale, ma fu condannata all’esilio prima sull’isola di Ventotene, poi a Reggio Calabria, dove morì. Forse quel nome Gira, associato alla figlia dell’imperatore Antonino, allude alla Giulia di qualche secolo prima, sembrando una sua corruzione.
Le proprietà della rucola non furono ignorate dai secoli successivi, e ne fu vietata la coltivazione e, nel Regno di Napoli, anche la vendita ai monaci: non appare perciò inverosimile che tale divieto fosse stato poi interiorizzato come senso comune, divenendo “buona maniera” non consumare rucola, fino a non molto tempo fa (anche se la pianta continuava a crescere spontaneamente e molti a cibarsene, come testimoniano varie ricette tradizionali, come le orecchiette pugliesi con rucola e patate). Non sembra inverosimile, d’altro canto, fosse divenuta anche ingrediente neanche tanto segreto di beveraggi, distillati e pozioni varie di mammane, maghe e fattucchiere, a scopi anticoncezionali o come “filtro d’amore”.
Peraltro, oggi si sa che certe proprietà attribuite dai secoli precedenti ad alcuni vegetali non erano poi così campate per aria.
Nella lattuga selvatica sono state rinvenute infatti varie molecole con un certo potere sedativo. Una bella insalata, se non proprio un decotto di lattuga, è consigliata infatti alle persone agitate e con difficoltà a prendere sonno.
Un bollettino dell’ormai conosciuta da tutti AIFA, del giugno 2005, ha sconsigliato invece l’assunzione in gravidanza di rucola e prezzemolo: soprattutto degli oli essenziali, spesso ricchi di chetoni, poiché aumentano la contrattilità uterina e il rischio di aborto.
Infine, ricercatori dell’università di Milano e di Bologna hanno verificato sperimentalmente l’efficacia della rucola come stimolante del desiderio maschile, scoprendo che agisce analogamente a certi farmaci oggi molto di moda, riuscendo ad inibire il particolare enzima Fosfodiesterasi-5, esattamente come quelli.
Una storia millenaria e frastagliata, dunque, quella della rucola: che s’interseca tanto con antiche pratiche e culture femminili, quanto col desiderio universale di eterna giovinezza. E di cui persino qualche variazione gastronomica contemporanea reca la forse inconsapevole traccia.
CARLO PONTORIERI* (E’ nato a Napoli, davanti al mare di Posillipo, ed è cresciuto a Materdei, nel centro storico della città. Ha il vizio della teoria e della storia del diritto, insegnando freelance in varie università meridionali. Se gli si domanda: ma chi glielo fa fare, risponde indefettibilmente: smetto quando voglio – e non si capisce se fa sul serio o ammicca al film. È convinto di capirne anche di musica, vino, politica e soprattutto pallone)