Nella festa di Pèsach si raccolgono insieme memorie, segni, significati e speranze differenti; dalla festa naturale della primavera, agricola (il raccolto dell’orzo) e pastorale, alla festa storica della liberazione. La stessa Torà la chiama con diversi nomi: una sola volta Chag haPèsach, dove per Pèsach si intende il sacrificio pasquale, e più diffusamente chag haMatzòt.
Per quanto riguarda il pèsach, si schematizza la sua celebrazione in tre distinte situazioni: la prima è il pèsach mitzraim in cui il popolo dopo avere scannato l’animale, aver dipinto con il suo sangue stipiti e architrave e essersi chiuso in casa in attesa degli eventi, consuma, con indosso i vestiti per la partenza, l’agnello arrostito. La seconda è il pèsach doròt, delle generazioni successive, che ha per centro Gerusalemme e il suo Santuario. Pellegrini innumerevoli accorrevano a Gerusalemme, si riunivano in gruppi per acquistare un animale che veniva portato da un loro rappresentante al Tempio, scannato il pomeriggio del 14 di Nisàn, riconsegnato al rappresentante dopo che il sangue era stato asperso sull’altare, arrostito sullo spiedo per intero (ghedì mequlàs) e consumato da tutti i membri del gruppo alla fine di una cena solenne dentro le mura di Gerusalemme.
La terza fase è quella che si apre dopo la distruzione del tempio, in cui il pèsach non c’è più e lo si ricorda. La Mishnà di Pèsachim al cap. 10 racconta come si svolgeva la cena pasquale, fornendo le domande del ma-nishtanà di quando il Tempio era in funzione, e aggiunge tante formule che rappresentano la struttura essenziale dell’haggadà che da secoli usiamo. Quale fosse precisamente la haggadà che si leggeva prima della distruzione non lo sappiamo; certamente faceva parte dell’evento il canto dell’Hallèl.
Dopo la distruzione del Tempio il Sinedrio si trasferì a Yavne dove in breve tempo la presidenza fu assunta da rabbàn Gamliel che apparteneva alla dinastia dei discendenti di Hillèl. I compiti di quel Sinedrio furono ardui e decisivi: assicurare la continuità dell’ebraismo nel momento in cui una sua essenziale componente rituale, quella del Santuario, era cessata. Tra l’altro definire i termini del pèsach senza pèsach. Come si vedrà, su questo non c’era accordo tra i Maestri. Come risultato, fu anche riordinato il seder di pèsach e sistemato almeno nella sua essenzialità il testo della (nuova) haggadà.
Ovviamente su questi temi non c’era unanimità e bisogna capire come erano gli schieramenti. All’inizio della haggadà compare la storia dei rabbini seduti a Benè Beràq che discussero un’intera notte sull’ uscita dall’Egitto, fino a che gli allievi all’alba li richiamarono al dovere della lettura dello shemà’. Il racconto di questo episodio, che si trova solo nella haggadà, pone varie domande e tra queste: che ci facevano i maestri chiusi in casa a discutere senza allievi? Perché il capo, rabbàn Gamliel non c’era? Una risposta possibile è che si trattasse di una discussione politica, come rispondere al potere romano, se si potesse organizzare una ribellione. Per questo il presidente del Sinedrio che doveva rappresentare gli ebrei davanti al potere, non era stato presente. L’ipotesi è suggestiva, ma cronologicamente regge poco, perché quel gruppo di Maestri citati insieme avrebbe potuto agire prima dell’anno 100, mentre la rivolta sotto Traiano (che non scoppiò in terra d’Israele) e quella di Bar Kokhbà sono non di poco posteriori a quella data. E rabbì Yehoshua sappiamo che non era affatto d’accordo a ribellarsi, per evitare bagni di sangue. Come capire meglio questo brano?. L’unico parallelo a questo racconto è nella Toseftà di Pèsachim (10:2) dove la versione presenta significative differenze:
Avvenne a rabbàn Gamliel e gli anziani che erano seduti nella casa di Baytos ben Zonin a Lod occupandosi delle regole del pèsach tutta la notte fino al canto del gallo, gli sparecchiarono davanti, si radunarono e andarono alla scuola.
Sono diversi i protagonisti, la sede della riunione, la fine (gli uni vanno a pregare, gli altri a studiare) e il tema della discussione, che solo in apparenza sembra essere lo stesso. Perché regole di pèsach e uscita dall’Egitto sono differenti benché collegate; uno è un atto rituale, l’altro è un avvenimento. Rabbàn Gamliel arrivò al punto di permettere il ghedì mequlàs, anche se poteva sembrare un sacrificio fatto fuori dal Santuario. Secondo lui era prioritario mantenere la memoria di quell’atto rituale, del valore salvifico del pèsach. Come lui la pensava, o l’aveva pensata il famoso Todos di Roma che agli ebrei romani faceva mangiare il ghedì mequlàs; visto che per la distanza geografica non avrebbero potuto fare il pèsach, che almeno se lo ricordassero. Ma i Maestri dissero no a lui e a rabbàn Gamliel: il Santuario non ha sostituti e se uno li istituisce è tutto finito. I maestri dissidenti da rabban Gamliel (rabbi Eliezer sarebbe stato da lui scomunicato, rabbì Yehoshua umiliato, rabbì Elazar ben Azarià ne avrebbe preso il posto dopo il colpo di stato che lo avrebbe deposto) puntavano su un altro tema: l’uscita dall’Egitto.
Si possono dare differenti risposte alla domanda sui motivi di questa divisione, e a questo punto si può mettere sul tavolo una diversa prospettiva. In parallelo alle questioni ebraiche, problemi di definizione identitaria e di fissazione di principi si ponevano contemporaneamente a una nuova fede, o allora forse solo una setta, che era nata dall’ebraismo intorno a un evento avvenuto nella Pasqua: il cristianesimo. Anche loro si chiedevano che cosa si dovesse ricordare della Pasqua e c’erano almeno due schieramenti: uno, relativamente più legato alle radici ebraiche, che voleva celebrarla il 14 di nisàn (e per questo chiamati “quartodecimani”), il giorno dell’ultima cena, dell’arresto, della condanna e della crocifissione proprio nell’ora dell’offerta del pèsach; e l’altro che spostava la celebrazione alla domenica, in cui si ricordava la resurrezione; passarono più di due secoli perché la questione fosse definitivamente chiusa con il concilio di Nicea.
Ora si potrebbe supporre che di tutte queste interpretazioni e discussioni cristiane ai rabbini non importasse niente e che ognuno orami se ne andasse per la sua strada in modo indipendente. Le cose però non stavano così; i rapporti tra i cristiani e gli ebrei legati ai rabbini erano tesi e polemici, benché entrambi dovessero misurarsi contro un nemico comune, il potere romano. I contatti c’erano e continui, anche se non pacifici; da parte cristiana vi era forte aggressività polemica e attività conversionistica; una delle dure risposte rabbinica fu l’istituzione della birkat haminim, che forse includeva tutte le sette, ma tra queste c’erano i giudeocristiani . La domanda è se nella haggadà come ora la conosciamo siano identificabili i segni di questo incontro-scontro. Da qualche decennio la questione è stata studiata in ambito critico, e ora sta affiorando anche in campo religioso tradizionale. Gli argomenti addotti sono interessanti e quali che siano le conclusioni possibili, offrono una prospettiva di lettura nuova e stimolante.
Vista in prospettiva di polemica anticristiana le scelte delle due correnti opposte potrebbero essere così spiegate: per i cristiani il pèsach ormai è quello di G., e rabban Gamliel dice no, e dobbiamo continuare a farlo; per gli altri maestri parlare di pèsach è pericoloso perché sosterrebbe i cristiani, parliamo invece della nostra liberazione, quella storica, politica e religiosa del popolo ebraico.
L’esame non si ferma fa, ma si sposta a tutto il seguito del testo dell’haggadà. Che a questo punto nella gestione del rito e della memoria è in mano agli antagonisti di rabbàn Gamliel, che rispunterà però alla fine fissando dei chiodi precisi.
Dove compare la forza dei dissidenti da rabban Gamliel? Nel brano successivo, la domanda di rabbì Elazar ben Azaria sulla memoria, sempre dell’uscita dall’Egitto. L’uscita dall’Egitto non va mai dimenticata (e tanto meno sostituita), tutte le sere. E i Maestri aggiungono: anche nell’era messianica. E perché questa sottolineatura? Perché, si suggerisce, per i cristiani il messia era arrivato e non aveva più senso, se non come remota memoria simbolica, il richiamo all’uscita dall’Egitto; per noi vale sempre.
Poi ci sono i quattro figli. Del chakhàm, il saggio, parliamo dopo. Chi è piuttosto il rashà’, il malvagio? Rimanendo nella lettera del testo, è una persona che dice che la cosa non lo riguarda. Dicono i Maestri: se esci dalla collettività sei un negatore dei principi fondamentali, e non saresti stato liberato al momento della liberazione. Potrebbe essere un’allusione polemica verso i singoli che ritengono che l’ebraismo non li riguardi, o per interi gruppi che se ne distaccano, magari vantando che sono stati già liberati. L’interpretazione polemica è ancora più forte se si considera la versione del Talmud Yerushalmi che parlando del malvagio ripete l’espressione otò haish, “quell’uomo”, come per dire che quell’uomo che dice certe cose è un negatore ecc.; “quell’uomo” è espressione comune negli scritti rabbinici, e talvolta è stata usata proprio per indicare, senza nominarlo, G.
Il nucleo essenziale dell’haggadà che segue, è un lungo midrash a un brano di Devarim 26:5. È la formula che l’offerente recita quando si presenta al Tempio per offrire le primizie; un brevissimo riassunto di storia ebraica, dalle origini alla liberazione dall’Egitto e il dono della terra. Si parla delle sofferenze della schiavitù e dell’uscita; ma perché commentare questo brano, che è un riassunto e non la storia fondante e dettagliata del libro di Shemòt? Alle tante risposte che sono state date, si possono aggiungere queste considerazioni, nella chiave di lettura finora seguita: questo brano parla dell’uscita dall’Egitto e non del pèsach; il midràsh sottolinea il protagonismo assoluto divino e non delegato ad altri: “Io e non un angelo, Io e non un serafino, Io e non un inviato, sono Io e nessun altro”. Si associ a questo l’assenza del nome di Mosè in tutta la haggadà, tranne che in un un’unica citazione. Non ci sono intermediari nella liberazione, persino Mosè è cancellato. Visto nella prospettiva polemica, tutto questo ha un senso preciso, l’esclusione di intermediari nella liberazione.
“Pertanto noi siamo tenuti a ringraziare, lodare, celebrare, illustrare, innalzare, glorificare, benedire, esaltare omaggiare chi ci ha fatto tutti questi miracoli”
La mishnà (senza fonti parallele) prescrive ben nove forme di espressione di gratitudine per gli eventi che si ricordano. Difficile trovare riscontri e fonti parallele per questa moltiplicazione di espressioni. Perché tanta insistenza? Nella prospettiva finora delineata il motivo sarebbe ben preciso: la risposta all’accusa di ingratitudine mossa al popolo ebraico.
Un protagonista di questa accusa è stato il santo Melitone, vescovo di Sardi, in Lidia, Asia Minore (morto introno al 180-190). Sarebbe stato un convertito al cristianesimo, ma le fonti non sono chiare nel dire se venisse dai pagani o dagli ebrei. In ogni caso era un tenace sostenitore dei quartodecimani. Tra i pochi scritti che ci ha lasciato è importante la sua Omelia sulla Pasqua che è un documento storico fondamentale per tracciare, nell’ambito dell’antigiudaismo cristiano, il consolidamento dell’accusa agli ebrei di aver ucciso G., facendo risaltare, per contrasto la malvagità di questo atto, che nasce da un popolo ingrato che invece di ringraziare chi lo ha salvato lo ha fatto morire.
Melitone scrive :
Egli è colui che ci ha fatti passare dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannide al regno eterno, facendo di noi un sacerdozio nuovo, un popolo eletto in eterno.
L’analogia con il brano dell’haggadà (presente nella Mishnà) è impressionante, a parte la fine “sostituzionista”. C’è da chiedersi se Melitone stava usando la haggadà ebraica e la stava parafrasando a suo interesse o, meno probabile, se i Maestri abbiano tradotto in termini “ortodossi” le espressioni circolanti in ambiti cristiani.
La stessa domanda si pone quando, per parlare di ingratitudine ebraica, Melitone fa tutta una serie di esempi di eventi per i quali non solo il popolo ebraico non ha detto grazie ma “gli hai reso male per bene, dolore per gioia, morte per vita”:
“A che prezzo hai stimato le dieci piaghe? A che prezzo hai stimato la colonna di fuoco di notte? e la nube di giorno? e il passaggio del Mar Rosso? A che prezzo hai stimato il dono della manna dal cielo? e dell’acqua dalla roccia? e la promulgazione della Legge sull’Oreb? e l’eredità della terra con tutti i benefici in essa ricevuti?”
È evidente l’analogia con il Dayenu e il brano successivo (‘al achat) e anche qui la domanda: chi è arrivato prima1? Comunque, che sia stato prima o dopo, i Maestri hanno fissato dei paletti: la fine del brano cita tra le cose per cui ringraziare la costruzione del Santuario “per espiare tutti i nostri peccati”. Un modo di dire che esistendo il Santuario non c’è bisogno di chi espii per i nostri peccati. Ci sarebbe però da osservare che è difficile che i Maestri abbiano inventato un intero testo liturgico per contrastare un’accusa; d’altra parte questo testo compare nelle haggadòt molto tardi.
Melitone con il suo brano sull’ingratitudine gettò le basi per un testo liturgico, tuttora in uso nella messa latina del venerdi santo: sono gli Improperia, in cui a ogni beneficio erogato da Dio al suo popolo corrisponde un comportamento ingrato, negativo e omicida del popolo ebraico:
Quia eduxi te per desertum quadraginta annis, et manna cibavi te, et introduxi te in terram satis optimam: parasti crucem Salvatori tuo.
E così via per gli altri benefici a cui gli ebrei hanno risposto con ingratitudine. Per inciso, il testo è stato musicato da Pierluigi da Palestrina con una melodia definita “sublime” e la sua esecuzione rappresenta un momento di grande commozione nell’ambito di quella liturgia. Già Jules Isaac aveva protestato; la risposta è che il “populus meus” oggetto di rimprovero non sono gli ebrei ma l’umanità intera….
Avviandoci alla fine della Haggadà, rabbàn Gamliel ricompare e introduce una regola con forza;
“chi non ha detto questo queste tre parole a pèsach non ha adempiuto il suo dovere: e sono: pèsach, matzà e maròr”
Seguono tre brani specifici che spiegano il significato di ognuno di questi segni. È la definizione dottrinale precisa del senso della cena e della celebrazione della festa. Pèsach, il salvataggio degli ebrei nella piaga dei primogeniti; l’azzima, perché l’impasto non fece a tempo a lievitare che il Signore si rivelò loro e li liberò; l’erba amara, l’amarezza delle sofferenze provocate dagli egiziani. Ogni parola di queste spiegazioni ha un senso preciso ed è una lettura dell’evento e del suo ricordo. Tanto importante che chi non riassume così la celebrazione non adempie l’obbligo, quando l’obbligo altrove è espresso nel mangiare quegli alimenti (il pèsach solo quando c’è il Tempio) e di raccontare e insegnare ai figli (e le tre parole spiegate potrebbero essere l’adempimento dell’obbligo). L’affermazione dottrinale ha senso per sé stessa, ma acquista un valore aggiunto se serve in contrapposizione a altre dottrine e altre interpretazioni. Proprio come quelle cristiane, in cui il pèsach è sostituito dall’immagine di G. come Agnus Dei e il pane è il corpo di G., come già esplicitato nelle fonti evangeliche (Luca 22: 19, Giovanni 6:58). E sono anche presenti, per quanto non altrettanto importanti, le interpretazioni alternative cristiane delle erbe amare, generalmente riferite alle sofferenze della passione.
Sulla simbologia dell’azzima e sulla sottolineatura ebraica del suo significato, in contrapposizione alla teologia cristiana, c’è chi ha colto questa intenzione in altri particolari della haggadà. In particolare il brano iniziale ha lachmà ‘anyà, che è in aramaico, e non si conosce l’epoca della sua composizione, se sia un testo precedente alla distruzione del Tempio o successivo, se diasporico o di Erez Israel, espresso nella lingua comune del popolo. In ogni caso, che ci sta a fare, che bisogno ce ne è? Per alcuni sarebbe un modo solenne e incontrovertibile di ribadire all’inizio che quello che abbiamo davanti è il pane dell’afflizione, e solo quello, spazzando via ogni teologia alternativa.
Sempre in questa linea vi sarebbe la sottolineatura dell’afiqòmen nella risposta al chakhàm: la regola che dopo aver mangiato il pèsach non si mangia altro; il dessert, ciò che probabilmente era chiamato epikòmion, da cui con piccola deformazione afiqòmen; ma che c’entra questo dettaglio? Anche qui le risposte sono tante. Qualcuno ha suggerito che la parola afiqòmen nel suo significato greco “venuto” veniva utilizzata per indicare la discesa dal cielo; lo faceva il già citato Melitone, al § 66:
ούτος αφικόμενος εξ ουρανόν… Egli venne dal cielo sulla terra in favore di colui che soffriva.
Si tenga però presente che nella versione dei quattro figli presente nel Talmùd Yerushalmi si parla di afiqòmen a proposito non del sapiente, ma del terzo figlio, qui chiamato tippèsh, “scemo”; e il senso del riferimento è che non si debba andare da una mensa all’altra a assaggiare il pèsach dopo che lo si è fatto una volta. Qua la polemica sembra tutta interna.
In definitiva questo modo di vedere alcune parti o la struttura globale della haggadà aggiunge prospettive interessanti. Quanto siano corrette queste prospettive, malgrado i confronti stimolanti, e quale conclusioni se ne possano trarre, è difficile dire. In ogni caso va notato che quella che potrebbe essere una risposta rabbinica, se risposta è, non si esprime nelle forme dirette di un dialogo o di una disputa, ma attraverso affermazioni e negazioni dottrinali: “è così e non è così”, senza nominare avversari e dissidenti. Sta noi recuperare le infinite sfumature di un testo la cui unità e solidità dottrinale va tramandata e difesa, in quanto portatrice di messaggi fondamentali, nella lingua tipica dei nostri maestri dell’antichità.
Riccardo Di Segni
1 C’è analogia ma anche differenza, negli eventi citati e nel loro numero. Nel Dayènu, che comincia con le parole kama maàalòt tovòt sono 15, come il numero dei gradini (maàalòt) del Tempio che scendevano dalla porta di Niqanòr al cortile delle donne, e i Salmi che iniziano con shir (l)amaààlòt. Il Salmo 118 ha la stessa struttura e conta 26 atti.
Sembra prevalere una logica interna piuttosto che un intento apologetico.
Nota bibliografica
Questa nota è partita dalla lettura dell’articolo del prof. Israel Yuval su Tarbiz:
https://www.dropbox.com/s/0qhlsv9standwcw/passover.pdf?dl=0 .
Un primo ingresso di queste idee nel mondo più tradizionale è in https://www.xn—- 2hcm6cgyhbh.com/2013/03/Hagada.html