D-Day, ancora grazie America
André Glucksmann
Dieci anni fa rimpiangevo l’assenza del cancelliere tedesco alle cerimonie di Normandia. Oggi, non rinuncerò al mio piacere, intimo quanto filosofico. Rivolgo un grazie ai soldati che sbarcarono il 6 giugno 1944, quando la rete della Resistenza dove lavoravano mia madre e le mie sorelle più grandi cadeva nelle grinfie di Klaus Barbie: arresti, torture, corpi martirizzati spediti senza ritorno là dove sapevamo. E grazie agli americani, agli inglesi, ai canadesi, agli australiani che mi hanno salvato il resto della famiglia, grazie a coloro che permisero ai francesi di oggi di non essere costretti a pensare da nazisti o da stalinisti.
Senza D-Day, non ci sarebbe stata Europa a Sei, a Quindici, a
Venticinque e oltre. Sono ancora pervaso, privilegio dell’età, della
gioia cosmica, estatica, che scoppiava al di sopra della mia testa di
bambino quando gli adulti pronunciavano la parola «liberazione».
Dovemmo aspettare la metà degli anni Settanta affinché un
presidente della Repubblica federale riconoscesse chiaramente e
distintamente che la Germania, al termine della Seconda guerra
mondiale, non fu «invasa», ma «liberata». È perché la differenza fra
queste due parole mostrasse la sua evidenza decisiva che i miei cari,
quelli più vicini e quelli più lontani, a Lione, a Omaha Beach, a
Stalingrado, sono morti. Si parla a sproposito, con i tempi che
corrono, di «legittimità internazionale». L’unica, la vera, fu
inaugurata sulle spiagge normanne. Se l’Onu, malgrado il suo lato
caotico, non assomiglia del tutto alla triste Società delle Nazioni, è
perché i suoi fondatori a San Francisco avevano giurato che Giappone e
Germania non sarebbero stati conquistati né colonizzati, ma
semplicemente liberati dal fascismo. Da qui derivano due principi che,
sostenendo silenziosamente la Carta delle Nazioni Unite, impongono le
sue inevitabili ambiguità e contraddizioni: 1) il diritto dei popoli a
essere liberati; 2) l’autolimitazione del diritto del vincitore, al
quale è vietato conquistare, ma che è portatore di democrazia.
Il diritto dei popoli ad essere liberati da un dispotismo estremo –
diritto al D-Day – prevale sul rispetto ordinario delle frontiere e sul
principio secolare di sovranità. Tenuto conto della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, grazie all’esperienza dei
totalitarismi, il diritto essenziale dei popoli di disporre di se
stessi non deve garantire né implicare il diritto dei governanti a
disporre dei loro popoli. Sullo sbarco in Normandia si basano i recenti
interventi in Kosovo, in Afghanistan e in Iraq, anche senza copertura
del Consiglio di Sicurezza. Per una ragione decisiva: la legittimità
inaugurale che guidò la costituzione dell’Onu supera in autorità la
giurisprudenza ordinaria delle istituzioni nate da quella legittimità
fondatrice. Tanto più che in questo decimo anniversario del genocidio
dei Tutsi in Ruanda, il ricordo di spaventosi fiaschi nella gestione
dell’Onu non sfugge a nessuno e soprattutto non sfugge a Kofi Annan che
predica, invano, l’urgenza di una riforma radicale delle istituzioni e
della legislazione internazionali.
Possono ancora, gli americani, fare appello al diritto d’ingerenza
battezzato nel sangue versato per liberare l’Europa? Sì. Malgrado le
recenti ignominie commesse nelle prigioni irachene, moralmente
insopportabili, politicamente controproducenti e strategicamente
assurde, di cui portano l’intera responsabilità? Sì. Perché, nel bene e
nel male, gli Stati Uniti restano una democrazia. L’unica, da quanto mi
risulta, che non abbia censurato, in piena guerra, la pubblicazione dei
crimini commessi dai suoi soldati. L’unica dove la stampa e la
televisione svelano in poche settimane la vastità degli abusi e
scrutano liberamente gli annessi e i connessi del disastro compiuto.
L’unica dove le commissioni d’inchiesta parlamentari portano in
tribunale un presidente, ministri, generali, capi dei servizi segreti
interrogandoli senza riguardi né restrizioni.
Ricordiamoci che la Francia, tanto generosa nell’impartire lezioni,
in quarant’anni non ha mai incolpato, giudicato o condannato neanche
uno dei militari che torturarono durante la guerra d’Algeria. È
cinquant’anni dopo la fine delle ostilità, nel 1995, che un Presidente
riconobbe le responsabilità della Repubblica fra il 1940 e il 1945. Ed
è oggi, dieci anni dopo i fatti, che diversamente dal Belgio, dall’Onu
e da Washington, la Francia si ostina, a destra come a sinistra, a
rifiutare qualsiasi scusa ai Tutsi vittime di genocidio. Tutto questo
innalza noi francesi ad altitudini morali inaccessibili ai rozzi
yankees, afflitti da una stampa insolente, da un Senato indagatore e da
governanti costretti ad aprire i loro dossier per spiegarsi in tempo
reale.
Altrove, guardate com’è diverso, regna l’omertà. Aprile 2004. La
prima videocassetta: torture sistematiche, occhi estratti dalle orbite,
membra strappate di presunti combattenti, piramide di corpi. Seconda
videocassetta: esecuzione deliberata di una madre e dei suoi cinque
figli (dai 12 mesi ai 7 anni) nei pressi di Chatoi, in Cecenia. Due
testimonianze filmate da soldati russi nauseati dalle gesta dei loro
compagni d’armi. Un solo giornale di Mosca, la Novaia Gazeta , pubblica
le foto. Nessuna reazione. Silenzio radio-televisivo, silenzio della
giustizia, non una parola dalla gerarchia militare e politica, mutismo
mondiale. Bush è accolto sotto una valanga di proteste, Putin è accolto
come un fratello.
Eppure oggi il cittadino americano è il solo a guardare, giudicare
e condannare a caldo i misfatti perpetrati in suo nome. L’America non è
popolata da angeli, ma rimane la patria numero uno dei diritti
dell’uomo perché, più che altrove, è capace di darsi i mezzi per
mettere in luce e quindi bloccare la loro violazione. I diritti
dell’uomo misurano la nostra capacità di resistere all’inumano, al male
che ci è di fronte come al diavolo che è in noi.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Corriere della Sera 7 giugno 2004