L’autrice fa bene i compiti, ma esagera nel voler paragonare l’inesistente “Guerra santa” degli ebrei a quella vera dei musulmani. Persino nei testi di un autore sionista messianista come rav Avraham Kuk troviamo forti tracce di pensiero universalista (Kolòt)
ANNA MARIA COSSIGA
- Se pensiamo alla “guerra santa”, probabilmente la prima cosa che ci verrà in mente è il jihad della tradizione islamica, o forse le crociate, combattute dai cristiani per liberare la Terra Santa proprio dalle mani musulmane.
- Difficilmente, però, assoceremmo la “guerra santa” al moderno stato di Israele. Le pagine che seguono vogliono essere una riflessione, forse azzardata, sulla possibilità che proprio i moderni israeliani siano stati, e siano, coinvolti in qualcosa di simile alle guerre sante.
- Se non nel significato comune del termine, almeno in quello derivante dalla visione dei sionisti religiosi: guerre investite di una forte sacralità perché hanno dato avvio ai tempi messianici e alla futura redenzione del popolo ebraico e del mondo. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari, in edicola e in digitale da venerdì 8 luglio.
Se pensiamo alla “guerra santa”, probabilmente la prima cosa che ci verrà in mente è il jihad della tradizione islamica, o forse le crociate, combattute dai cristiani per liberare la Terra santa proprio dalle mani musulmane. Difficilmente, però, assoceremmo la “guerra santa” al moderno stato di Israele. Quella che segue vuole essere una riflessione, forse azzardata, sulla possibilità che proprio i moderni israeliani siano stati, e siano, coinvolti in qualcosa di simile alle guerre sante.
Per procedere nella riflessione dobbiamo addentrarci sul tortuoso sentiero della storia dello stato ebraico, che non può prescindere dal sionismo, e, ovviamente, dell’ebraismo. Li definiamo come termini imprescindibili di quella che ci piace chiamare “l’equazione stato d’Israele”.
Ebraismo e sionismo
L’ebraismo è certamente una religione, ma è anche qualcosa di più. Chi scrive non è ebrea, ma si permette di azzardare una sua definizione: l’ebraismo è un involucro totalizzante che contiene fede, osservanza, tradizioni, memoria condivisa, sofferenza millenaria, paura e speranza ma, soprattutto, tutto ciò che sentirsi ebreo significa. Per il sionismo, la definizione appare più semplice: si tratta di un movimento politico che vuole liberare la nazione ebraica da un’oppressione millenaria e creare uno stato ebraico su quel territorio cui, da sempre, gli ebrei anelano a tornare. Compiendo, ancora una volta, un azzardo, diciamo che il sionismo è, in qualche modo, la speranza contenuta nell’ebraismo che è riuscita a concretizzarsi nella storia.
All’inizio, ebraismo e sionismo non andarono d’accordo. Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, era un ebreo assimilato e poco avvezzo alle questioni religiose. La sua utopia prevedeva uno stato ebraico laico, pacifico e tollerante, dove la popolazione araba sarebbe stata ben felice di accogliere i “civilizzatori ebrei”. Anche David Ben Gurion, leader sionista, socialista e primo capo del governo israeliano, probabilmente avrebbe preferito lasciare Dio e la religione fuori dall’equazione “stato d’Israele”.
Per costruire lo stato ebraico però ci volevano gli ebrei, e l’ortodossia ebraica – cui molti ebrei ancora aderivano ai tempi di Herzl – non aveva alcuna simpatia per il sionismo. Ritenevano i loro fautori, infatti, una compagine di atei sacrileghi che, con la loro arroganza, volevano affrettare i tempi stabiliti da Dio. Solo con l’arrivo del Messia, infatti, per il popolo di Israele sarebbe divenuto lecito tornare nella Terra promessa ed essere di nuovo politicamente indipendente. Ma non tutti gli ebrei ortodossi la pensavano così.
Rav Abraham Isaac Cook reinterpretò un pensiero sionista-religioso già esistente all’interno dell’ortodossia ebraica e teorizzò quelle che sono del movimento sionista-religioso contemporaneo.
Cook credeva che l’yishuv, la comunità sionista costituita con successo in Palestina e da cui scaturirà lo stato di Israele, non potesse essere una semplice manifestazione umana e che avesse, invece, un’origine divina, come dimostrava il suo successo. Inoltre, la comparsa del sionismo nel mondo segnava l’inizio della redenzione e dell’avvento del Messia. Che a dare inizio alla redenzione fossero ebrei “impuri” non aveva nessuna importanza. Essi erano comunque ebrei, dunque membri dell’alleanza che Dio aveva stretto con il suo popolo. Da quel patto santo non sarebbe mai potuta emergere «un’empietà collettiva», perché «lo spirito del Signore» e quello di Israele erano «lo stesso». I sionisti erano membri di una generazione messianica che era «buona interiormente e malvagia esteriormente», ma erano strumentali alla nascita di uno stato ebraico che, con il tempo, avrebbe avuto come sua unica legge quella data da Dio.
Possiamo solo immaginare che cosa Ben Gurion pensasse di tutto questo. Sappiamo però con certezza che fu lui ad accettare la spartizione delle Nazioni unite del 1947, che divideva il territorio del Mandato britannico in Palestina in due stati, uno destinato agli ebrei e uno agli arabi. Ben Gurion proclamò lo stato di Israele il 14 maggio del 1948. La vittoria del sionismo segna anche l’inizio delle guerre cosiddette arabo-israeliane e di tutte quelle che sono seguite e che continuano, anche se in forme diverse.
“Religione civile”
Ma torniamo allo stato di Israele appena nato. L’ideale di uno stato ebraico e laico si trovò ben presto a dover fare i conti con la realtà. Ben Gurion si rese conto che uno stato non avrebbe potuto reggersi senza un’identità nazionale forte che il solo sionismo, benché vittorioso, non avrebbe potuto fornire. Si dedicò quindi alla formazione di una “religione civile” che affiancasse l’ideale sionista e fosse al tempo stesso capace di sostituire quella tradizionale.
Il suo tentativo non riuscì del tutto. I “miti nazionali” che furono creati attinsero comunque alla tradizione biblica, spingendo i “nuovi ebrei” a emulare gli eroici israeliti, le cui gesta sono narrate nella Torah. Anche il biblico re David, che fondò il primo ebraico regno indipendente, è uno dei “miti” sia dei sionisti laici, sia di quelli religiosi.
Gli studiosi sono concordi nell’affermare che la tradizione ebraica non parla mai di “guerra santa” nel senso in cui la intendiamo comunemente. Si possono, tuttavia, definire in qualche modo “sante” le guerre vittoriose degli antichi israeliti. Lo sono, però, perché combattute non dagli uomini, ma da Dio stesso. E poiché egli è santo, anche le sue guerre sono sante.
Ma possono i combattenti israeliani, che pur si ispirano al valore degli antichi israeliti, pensare che sia davvero Dio ad aver condotto e a condurre ogni volta una “guerra santa” contro i nemici del suo popolo? Forse possiamo trovare una risposta proprio nel sionismo religioso. È l’interpretazione che il movimento dà alla Guerra dei sei giorni a dare un nuovo senso a quella che, portata avanti con un conflitto “classico” o con altri mezzi, è ancora oggi la riconquista della Terra d’Israele. La guerra combattuta nel 1967 viene interpretata come una guerra dai tratti miracolosi. Non solo Israele la vince in pochissimo tempo ma, grazie a essa, occupa il Sinai, sul quale Dio diede a Mosè le Tavole della legge; riconquista le bibliche Giudea e Samaria, annesse dalla Giordania nella Prima guerra arabo-israeliana; e, soprattutto, restituisce a Israele la città vecchia di Gerusalemme, sede del monte su cui sorgeva il Tempio e simbolo stesso dell’ebraismo. I soldati di Tsahal celebrano la vittoria al Muro occidentale, meglio noto come Muro del pianto, dove gli ebrei, prima della nascita dello stato di Israele, piangevano la distruzione della città santa. Le lacrime, adesso, sono di gioia.
Valore sacro
Se non possiamo certamente dire che la Guerra dei sei giorni sia stata una “guerra santa” nel senso comune del termine, possiamo forse azzardare nuovamente e suggerire che abbia, per molti ebrei, un valore sacro e che abbia attribuito tale sacralità a tutti i conflitti che da allora si sono succeduti.
La nostra riflessione ci porta dunque a ipotizzare che anche gli israeliani abbiano combattuto, e combattano, qualche “guerra santa”; se non nel significato comune del termine, almeno in quello derivante dalla visione dei sionisti religiosi: guerre investite di una forte sacralità perché hanno dato avvio ai tempi messianici e alla futura redenzione del popolo ebraico e del mondo.
Lo stato d’Israele è ancora impegnato in un conflitto, anche se non possiamo definirlo una vera e propria guerra: quello con i palestinesi. Alcuni dei più estremisti tra i cittadini israeliani ebrei considerano tale conflitto necessario non solo perché lo stato sopravviva, ma perché la Terra d’Israele torni a essere “pura”, come lo era dopo la conquista degli antichi israeliti, che combatterono contro i popoli cananei, allontanandoli per sempre dal proprio territorio. Tale “purezza”, però, non prevede affatto la presenza dei palestinesi.
Dopo la vittoria del 1967, una parte sempre più consistente degli ebrei israeliani vuole vedere Israele, per ora senza confini definiti, entro quelli stabiliti dalla Torah, che delimitano un territorio che va dal Giordano al mar Mediterraneo. Ci pare che in questo modo si tenda a dare allo stato, e ai suoi conflitti passati, in corso e futuri, un significato pienamente religioso.
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ANNA MARIA COSSIGA
È stata docente di Antropologia culturale e Geopolitica in diverse università italiane. È stata membro della Commissione governativa per lo studio della radicalizzazione jihadista in Italia. Attualmente svolge attività di ricerca e consulenza su jihadismo ed estremismo politico violento, ed è analista senior presso la Fondazione europea per la democrazia.