Wokeism, intersezionalità, antisemitismo
Giorgio Berruto – Hakeillah.com
In my country there is problem / and that problem is the jew / they take everybody money / they never give it back, intonava lo sgangherato film Borat di Sasha Baron Cohen in un country club di Tucson, Arizona. Nel mio paese c’è un problema, gli ebrei, perché ti prendono i soldi e non te li restituiscono più. Il pubblico non solo non aveva nulla da obiettare, ma anzi non ci metteva molto a unirsi al ritornello, per terminare nell’entusiasmo Throw the Jew down the well / so my country can be free. Butta gli ebrei nel pozzo e il mio paese sarà libero. La provocazione era perfettamente riuscita. Un bell’esempio di come un leggero soffio sulle braci basti ad attizzare il fuoco dell’antisemitismo. Era il 2004.
Cattivi metafisici
I bad guys, i cattivi, sono quelli sempre e comunque. Andare a vedere quello che fanno, considerandone le scelte e le azioni, è perciò del tutto irrilevante. I cattivi sono cattivi perché sono cattivi. Per quello che sono, non per quello che fanno. La loro malvagità è questione di essere, di ontologia. Metafisica, cioè struttura profonda della natura, nulla quindi che derivi da una scelta, da un problema di responsabilità individuale. L’identità contiene in sé già il giudizio, e tanto basta. Se accettiamo questa visione del mondo giudichiamo l’essere delle persone, non le loro azioni. Per fare un esempio, un esempio assolutamente non a caso, da questo punto di vista gli ebrei non sono malvagi perché sordidi, avari e vendicativi, bensì sono sordidi, avari e vendicativi perché malvagi. Il male e il bene stanno a monte, risiedono in inavvicinabili regioni iperuraniche, non sono disponibili alla scelta degli esseri umani. Mi scuseranno gli antichi gnostici, ma ragionare in questi termini è delirio sciocco e pericoloso eppure oggi terribilmente cool. Diciamocela tutta, è anche una scorciatoia. Per fortuna esiste un’alternativa, sebbene meno modaiola, tristemente meno trendy sui social, meno like hunting. L’alternativa è giudicare sulla base delle azioni, cioè della responsabilità individuale, che è poi anche il principio a fondamento del diritto occidentale, e mica solo da poco. Tutti i personaggi che Dante colloca all’inferno, per esempio (questa volta davvero un esempio tra i tanti possibili), sono lì per una ben precisa e spiegata colpa individuale. Non per quello che sono, per il loro essere, ma per quello che hanno fatto. Perfino cattivissimi come Bruto e Cassio oppure Giuda sono dove sono, cioè nel punto più infimo, a causa delle azioni abiette che hanno compiuto e basta, non per chi sono stati in vita. Nella Commedia non si trova un singolo ebreo condannato in quanto ebreo, e naturalmente neanche qualsivoglia altra persona condannata per quello che è e non per le azioni di cui è stata ritenuta responsabile. Ma Dante oggi è più celebrato che letto, e gli ebrei negli ambienti dei post-colonial studies, dell’intersezionalità e del wokeism giudicati sulla base non della responsabilità individuale di ciascuno bensì dell’ontologia, cioè del fatto stesso di essere ebrei.
Breve storia dell’arte
Una seconda e ultima divagazione, questa volta sull’arte, una minuscola storia dell’arte in pillole, millenni di bellezza in dieci righe. C’era una volta in cui nell’arte contava l’abilità dell’artista, la bravura nell’applicare tecniche riconosciute. Era il tempo di Raffaello e di Caravaggio e di Rembrandt e delle madonne e dei paesaggi e dei ritratti. Poi è arrivata un’altra epoca, in cui l’abilità perse un po’ alla volta rilevanza a vantaggio della novità, della provocazione, dell’idea. L’epoca degli orinatoi e delle ruote di bicicletta, del dripping e dei minestroni Campbell’s, dei tagli e del cemento su tela. Sembrava una nuova stagione millenaria, invece tramontò in mezzo secolo circa. Sorse allora il regno dell’arte politica, o meglio la politica fece irruzione nell’arte. Una generazione di iconoclasti si scagliò contro linee e colori, vili strumenti della dittatura delle forme, in nome del puro contenuto, del “che cosa” delle cose. Trionfò il dualismo. Erano i tempi di Guttuso e Pasolini, di Keith Haring e Banksy. Anni di ubriacature e rapidi riflussi, di assalti spavaldi all’arma bianca e ritirate furtive dalla porta di servizio, anni tuttavia in cui non esisteva la distinzione tra ebreo e greco, avrebbe detto Paolo di Tarso, perché di fronte alla politica tutti sono uguali – anche se alcuni, i maiali orwelliani o l’aristocrazia operaia, scegliete voi, sempre un po’ più uguali degli altri. A quel tempo era popolare la figura del bianco virtuoso che poteva ancora stare legittimamente dalla parte degli indiani, come in Piccolo grande uomo o Platoon o Avatar. Ma anche questa stagione non durò a lungo, o meglio si trasformò. E arriviamo al quarto impero, quello in cui noi viviamo oggi, nel quale non è la forma a interessare, non la novità e neanche più tanto il contenuto politico dell’opera d’arte. L’unica cosa che conta non è in effetti l’opera, bensì l’identità dell’autore. Non come lo fa, non che cosa fa ma chi è l’artista. Il suo essere cristallizzato, messo sotto vuoto, eternato. I musei di tutti e soli i paesi occidentali traboccano di mostre in cui a essere raffigurato è il chi dell’autore, fuori dal quale non è data alcuna opera. Detto senza alcuna ironia, l’autor* tipic* è sudafrican* o brasilian* trans ner* e rifiuta categorizzazioni binarie di genere. A scanso di equivoci, non solo è legittimo ma anzi importante e perfino irrinunciabile dare visibilità a temi come le identità non binarie e i diritti di ogni tipo di minoranza. Ma che sia esattamente l’identità ciò che rende importante o no un’opera d’arte – o meglio, che rende arte o no un’opera – lascia perlomeno perplessi. Questo genere di arte che spopola nei principali templi della cultura dell’Europa occidentale e del Nordamerica – ed è invece totalmente assente altrove – eleva l’identità ad assoluto. Chi si è, l’essere insomma, esaurisce tutto il senso. Che l’identità sia nient’altro che il modo con cui rappresentiamo noi stessi e chiediamo agli altri di rappresentarci non interessa alla genia di idolatri che detta l’agenda della cultura. Con un ragionamento circolare, l’identità viene fissata nel granito proprio da coloro che affermano la fluidità dell’identità. Neanche a dirlo, per questo identitarismo antidentitario gli ebrei rappresentano il polo negativo perfetto.
Gli ebrei sono bianchi?
Perché gli ebrei sono malvagi, anzi i malvagi per eccellenza? Tre anni fa il museo ebraico di Amsterdam ha ospitato una interessante mostra dal titolo Are Jews White? (“gli ebrei sono bianchi?”), chiedendosi se gli ebrei siano bianchi in senso simbolico, cioè nel grande teatro della storia siedano sugli scranni dei vincitori, dei privilegiati, di coloro che hanno approfittato di posizioni di potere, sfruttamento e dominio. Sembra incredibile, dal momento che la minoranza ebraica nell’ultimo millennio è stata costretta sia nel mondo cristiano sia in quello islamico per lunghi tratti in una posizione di subalternità, quando non esplicitamente perseguitata, ma la risposta da parte di aree crescenti di opinione pubblica è che sì, gli ebrei sono bianchi, bianchissimi anzi, i visi pallidi per definizione. A trainare, ma forse sarebbe più giusto dire sobillare, questi segmenti di pubblica opinione sono gli ambienti numericamente minoritari ma assai influenti della cancel culture, del wokeism e dell’intersezionalità, insomma delle ideologie che invocano l’unione di tutte le minoranze – tutte tranne una, indovinate quale – e si scagliano contro l’iniqua dittatura dell’uomo maschio adulto eterosessuale bianco occidentale. Viene definito woke (dall’inglese wake, “svegliare”), soprattutto dall’ascesa del movimento Black Lives Matter cominciata nel 2013 e culminata nel 2020 dopo l’omicidio di George Floyd, l’atteggiamento di chi si ritiene ingiustamente vittima di svantaggio economico e sociale, a cominciare dagli afroamericani negli Stati Uniti. I sistemi di oppressione – questa l’idea base dell’intersezionalità – sono tra loro collegati e vanno quindi combattuti tutti insieme.
Qualche esempio. Nel 2019 l’American Women’s March elenca tra i principi da difendere la diversità delle donne nere, native, economicamente disagiate, immigrate, disabili, musulmane, lesbiche, queer e trans, ma rifiuta di includere le donne ebree. Lo stesso anno all’evento dell’associazione sorella olandese viene negato ogni riferimento all’antisemitismo, mentre il corteo include donne disabili, prostitute, transgender, immigrate e musulmane velate e non velate, e non mancano di spuntare striscioni e bandiere palestinesi – non esattamente rappresentative della tutela dei diritti delle donne. Alla Dyke March di Chicago, un importante evento intersezionale, tre donne che portano una bandiera arcobaleno con la stella di Davide vengono cacciate. Inutile aggiungere all’elenco gli episodi successivi al 7 ottobre, quando associazioni femministe e intersezionali rifiutano ripetutamente di accogliere la denuncia degli stupri e del femminicidio di massa compiuto da Hamas. Per questi gruppi è evidentemente grave stuprare e assassinare tranne in un singolo caso, cioè quando le vittime sono ebrei ed ebree. Per alcuni è inopportuno alzare la voce (“dipende dal contesto”), per altri la violenza antiebraica è legittima, per altri ancora opportuna e apertamente invocata.
La guerra fredda ha lasciato in eredità alla sinistra radicale – alla quale la sinistra moderata guarda troppo spesso con simpatia, peraltro niente affatto ricambiata – un dogmatismo di tipo morale analogo al dogmatismo woke e intersezionale. Per entrambi la realtà va divisa su basi morali tra buoni e cattivi – e rispetto a questo dualismo grossolano gli stessi eventi sono secondari o addirittura irrilevanti. Da questo punto di vista perfino i fatti del 7 ottobre non hanno particolare rilevanza. D’altronde è stato lo stesso segretario dell’Onu Guterres, poche ore dopo il pogrom, a dire che gli attacchi di Hamas “non sono accaduti nel vuoto” e che “va considerato il contesto”. Da qui a sostenere che gli attacchi dei terroristi siano reazioni giustificabili all’“illegittimo regime di occupazione sionista” il passo è breve. Per Guterres, e tanto più per gli accademici che hanno firmato gli appelli per il boicottaggio dell’ebreo tra gli stati, Israele, il 7 ottobre non è successo niente di particolarmente rilevante. Eppure gli uomini di Hamas non hanno fatto nulla per nascondere tutte le efferatezze compiute, anzi le hanno documentate, pubblicizzate e celebrate. Nessuna notte e nebbia, dunque, ma anche nessuno scandalo per i dogmatici secondo i quali ogni gesto contro un regime immorale di colonizzazione e discriminazione, come è considerato quello israeliano in totale spregio dei fatti, non è altro che gesto di resistenza, e in quanto tale legittimo. Per questo in tutta Europa sono stati strappati e perfino bruciati i manifesti della campagna Bring them home con i volti degli israeliani rapiti, tra i quali anche neonati e novantenni. Tutti i rapiti, e tutti gli israeliani in genere, in quanto ebrei sono l’oppressore da combattere con ogni mezzo. Non c’è differenza tra un soldato, una famiglia di coloni o una coppia di pensionati pacifisti, se sono ebrei, esattamente come non c’era alcuna differenza per i nazisti tra combattenti del ghetto di Varsavia, neonati lituani, professori viennesi e anziane della casa di riposo di Venezia. Tutti costoro sono ugualmente colpevoli in quanto ebrei, per gli antisemiti “antirazzisti” sodali degli antisemiti islamisti perché gli ebrei sono simbolo di un sistema “bianco” oppressivo contro cui ogni mezzo è lecito. Allo stesso tempo viene negato agli ebrei il possibile statuto di vittime della violenza altrui. Le uniche vittime possibili e dunque “vere” sono i palestinesi. È peggio del negazionismo della Shoah: è la giustificazione preventiva di ogni nuovo potenziale genocidio degli ebrei, di ogni nuova Shoah.
Nessuna attenuante
L’antisemitismo di principio, cioè il pregiudizio in partenza verso gli ebrei, non basterebbe a spiegare il perché di tutto questo se non ci fosse anche un antisemitismo di arrivo, un antisemitismo come risultato della visione woke del mondo. Che è una visione metafisica vittimista, povera, in bianco e nero: da una parte le vittime, dall’altra i carnefici, tra i quali con una evidente forzatura sono collocati gli ebrei, malvagi a prescindere da quello che fanno, semplicemente per il fatto di esistere. All’interno di questo orizzonte dicotomico che fa furore in alcuni prestigiosi campus americani non esiste sfumatura. Tra ebrei religiosi, laici e assimilati, di destra e di sinistra, magrebini o ashkenaziti non viene fatta distinzione. Singolarmente, ma non sorprendentemente, è lo stesso modo di considerare gli ebrei dei terroristi di Hamas, che il 7 ottobre non sono andati a cercare soldati oppure civili, religiosi o laici, russi o etiopi ma hanno massacrato in un’orgia di sangue tutti coloro che hanno potuto raggiungere. Non è vero che Hamas ha puntato a colpire la Israele laica e tendenzialmente di sinistra dei giovani al festival di Re’im e dei kibbutzim. Quelle sono state le vittime che ha trovato più comodamente, ma se ne avesse incontrate altre la risposta non sarebbe stata in nulla diversa. E la risposta, inutile dirlo, è la violenza bruta e disumanizzante. Il 7 ottobre Hamas non ha cambiato l’obiettivo di cui si vanta (in arabo) da oltre trent’anni, che è il genocidio degli ebrei – degli ebrei, non degli israeliani, come specifica il suo stesso statuto -, ha solo avuto più successo di altre volte. Chi considera gli ebrei collettivamente colpevoli perché dalla parte vincente della storia non solo compie un errore di valutazione, ma in nome di una metafisica dualistica si allinea perfettamente con l’ideologia vittimista, intollerante e genocida di Hamas, del terrorismo palestinese e dei suoi numerosi e facoltosi sponsor dall’Iran alla Turchia al Qatar. Chi lo fa partecipa alla guerra attraverso la demonizzazione, la legittimazione della violenza antisemita e talvolta la violenza stessa. Per questo non va amichevolmente considerato un “compagno che sbaglia”, non gli vanno concesse le attenuanti comunque tutte da verificare dell’ignoranza e dell’imbecillità. Esattamente nello stesso modo in cui non vanno concesse attenuanti ai rapati che sfoggiano la croce uncinata e a chi nelle curve degli stadi intona cori che invitano a riaprire Auschwitz.
La metafisica gnostica del wokeism – adottata anche da interi stati, come il Sudafrica, che fanno del vittimismo un valore condiviso su cui edificare l’appartenenza nazionale – fissa le identità ed è pronta a giustificare ogni gesto, se questo viene dai buoni ed è rivolto contro i malvagi. Per esempio se viene da Hamas, i cui eventuali (!) eccessi saranno da attribuire alla presunta durezza di Israele verso chi da sempre sceglie violenza, terrorismo e guerra e rifiuta pace e convivenza. Questa ideologia, l’alleata migliore del fondamentalismo islamico in Occidente, contribuisce ad armare gli assassini from the river to the sea.
Gli avventori del pub di Tucson che si sono fatti trascinare dall’idea di liberarsi degli ebrei gettandoli nel pozzo frequentano poco i campus universitari e sono certamente più prossimi al suprematismo bianco, anch’esso vittimista e cospirazionista, che agli ambienti woke e intersezionali. Non si può dire lo stesso, invece, degli studenti dell’università di San Francisco avvicinati dal regista Ami Horowitz, che ha finto di raccogliere denaro per aiutare ad ammazzare gli ebrei riscuotendo un incredibile successo. Il video è stato trasmesso negli Stati Uniti su Sky News ed è disponibile su YouTube. Si badi, Horowitz non parla di finanziare attacchi contro Israele ma proprio contro “sinagoghe, scuole, ospedali e ristoranti ebraici”. Finalmente un bel progetto per “tenerli a bada”, gli ebrei, commentava una studentessa, mentre numerosi altri contribuivano con un sostegno economico (17 su 35 studenti avvicinati) e ancora di più con il “sostegno morale” e l’impegno a diffondere la voce (28 su 35). Come nel country club di Tucson, a nessuno degli interpellati è venuto in mente che potesse trattarsi di uno scherzo.