Ayelet Waldman, autrice del bestseller «Bad Mother»: «I figli lasciati ai margini sono più felici e indipendenti»
Alessandra Farkas
NEW YORK – «Se la buona madre è colei che ama i propri figli più di qualsiasi altra cosa al mondo, allora io non sono una brava madre. Amo mio marito più dei miei figli, per me accessori». È bastata questa frase, scritta nel 2005 in un editoriale sul New York Times, per trasformare Ayelet Waldman nella mamma più odiata d’America. Ma invece di farsi intimidire dagli insulti delle croniste tv e dalle minacce via web, la 44enne autrice, avvocato e moglie del celebre – e bellissimo – romanziere Michael Chabon è tornata al lavoro per approfondire le sue tesi, eretiche nell’America post-femminista. Il risultato è «Bad Mother», il bestseller che ha spaccato in due il Paese. Mentre l’Huffington Post lo definisce «un must per ogni madre del pianeta», per Elle è «terrorismo letterario».
FIGLI PIÙ FELICI – «Penso che le mamme debbano dire la verità, specialmente quando fa male – racconta l’autrice a Corriere.it -. Il mondo cerca costantemente di farci sentire cattive madri. Purtroppo riuscendoci: la maggior parte di noi vive con questo senso nascosto e perenne di colpa e inadeguatezza». Scrittrici come Peggy Orenstein e Meg Wolitzer hanno osannato il capitolo in cui la Waldman afferma che i figli allevati sapendo di essere marginali sono «più felici, indipendenti, sani e longevi dei cocchi di mamma, iper-protetti e viziati». «I miei quattro figli non ce l’hanno con me per ciò che affermo – dice – perché sono incredibilmente sicuri. I genitori dei loro amici stanno tutti divorziando mentre loro sanno che papà e mamma staranno insieme per sempre e ciò li rende sereni e felici». In materia d’educazione sessuale, la sua strategia è semplice: «Ho messo una trousse colma di profilatici multicolori nella loro stanza da bagno, per abituarli all’idea, quando sarà ora».
FEMMINISMO – La parte del libro che ha indignato di più le lettrici del sito MyBaby.com è quella in cui afferma «potrei sopravvivere la perdita di un figlio, non quella di mio marito». Eppure la critica del New York Times Susan Dominus si è commossa per il capitolo dove la Waldman rievoca il giorno di Yom Kippur quando, di fronte all’intera sinagoga, lesse una lettera di espiazione dedicata al figlio, abortito dopo aver scoperto che era portatore di difetti genetici. «Gli implorai perdono – racconta – per essere una madre tanto inadeguata da non poter accettare un bambino imperfetto». Migliaia di donne e femministe reduci da un’esperienza analoga le hanno scritto commosse per ringraziarla. «Però molte femministe mi rimproverano di aver usato la parola bambino, invece di feto» puntualizza lei. E proprio il femminismo, secondo l’autrice, ha reso il mestiere di madre infinitamente più difficile. «Il nostro multi-tasking ha raggiunto livelli parossistici. Dobbiamo essere perfette in tutto, mentre per essere definiti modello, ai padri basta presentarsi alla partita o al compleanno del figlio». Le promesse tradite di una società più equanime avrebbero generato nelle donne un risentimento che cova sotto la cenere. Con conseguenze disastrose anche sulla vita sessuale della coppia.
SESSO E COPPIA – «L’uomo usa il sesso per rilassarsi dopo una giornata di stress e duro lavoro. Per noi donne è vero il contrario. Se poi dopo 8 ore in ufficio dobbiamo anche sobbarcarci i lavori domestici, è la fine dell’eros». Conclusione: «La vita sessuale di una donna è relazionata all’aiuto del marito in casa. Non c’è nulla di più sexy per una moglie con prole di un uomo che passa l’aspirapolvere». Anche se in libreria «Bad Mother» va a ruba, la Waldman è una delle rare scrittrici ad essere stata insultata durante il popolare show femminile The View e fischiata all’Oprah Winfrey Show. Come verranno recepite le sue teorie nella Vecchia Europa? «Gli inglesi applaudiranno senza riserve e i francesi soffieranno anelli di fumo in aria, scuotendo le loro galliche spalle e chiedendosi perché noi americani ci torturiamo così inutilmente. In Italia non riesco ad immaginare una madre che ami qualcuno, Dio compreso, più del figlio». Dopo aver trascorso le due ultime estati in Toscana, l’autrice descrive l’Italia come «un Paese ormai senza più bambini, che stravede quando ne incontra uno». «Camminare in una via italiana con un bimbo in braccio è come trasportare un’enorme torta nuziale. Tutti vogliono assaggiarla».
http://www.corriere.it/esteri/09_giugno_16/waldman_mamma_odiata_america_farkas_a6d714f2-5a90-11de-8451-00144f02aabc.shtml
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Reazioni a: Siamo stanchi di essere ebrei?
Forse David ha ragione,
potremmo fare un Seder di Pesach aiutandoci durante le preghiere con il Karaoke, Yom Ha Azmaut, facendo venire i sbandieratori di Pisa, per Yom Ha Shoà si potrebbe fare una bella braciata in campagna.
Ma di che cosa stiamo parlando?
Settimio Di Porto
Anche a Gerusalemme alla letture dei nomi dei deportati vengono l’Ambasciatore di Italia (da T.A.) e il Console Generale italiano di JM. Ma gli ebrei sono in numero che non raggiunge i 30/40 al massimo , adulti e anziani, ma i giovani non si vedono.
Lettera firmata
Interessante come la prima affermazione sia la non religiosita’. Che sia questa la causa?
Comunque sono d’accordo con te, non vedo perche’ essere ebrei significhi essere condannati a partecipare a cose noiose. Certo che a Trieste non e’ cosi’ semplice come a Roma o Milano…
Ciao
Daniele
Caro Piazza,
Lei ha ragione, noi vecchi (si fa per dire, io ho 62 anni e sono quindi un “post bellico”) desidereremmo che quelli più giovani di noi ci seguissero, sia nelle nostre realtà sia nei nostri sogni. In effetti ciò non accade più.
Però qui nella nostra piccola realtà ebraica di Trieste, sicuramente marginale rispetto alle grandi Comunità di Milano o Roma, dove contano i numeri, c’è un salto generazionale che mi preoccupa, e non poco.
Non parlo solo dei giovanisssimi o giovani, che dichiarano di avere un’altra visione dell’ebraismo (quale sarà poi questa visione, io proprio non lo so) ma i cinquantenni , i quarantenni, che sono nati dopo la creazione dello Stato d’Israele, ma che hanno vissuto, assieme ai loro genitori, le vicende delle guerre di Indipendenza in Israele, dove sono ? E poi credo che molti di noi, purtroppo, abbiano perso qualcuno nella Shoà, e se non era un nostro familiare, era qualcuno della porta accanto. Lei mi invita cortesemente a pensare con la loro testa e non con la nostra. Accetto volentieri questo invito, ma per favore, qualcuno mi illumini sul nuovo pensiero “giovane” su Israele e sulla Shoà. Qualcuno dei più giovani mi dica cosa bisogna fare per ricordare i nostri scomparsi nei forni crematori o come si debba commemorare i caduti nelle guerre di Indipendenza di Israele.
Ma forse il problema, caro direttore, è più vasto. Mi chiedo se l’astensionismo non dipenda dai rapporti con la propria Comunità, dai rapporti con il rabbinato, dai rapporti con le Istituzioni, e così via. E qui si potrebbe aprire un dibattito che non potrebbe essere esaurito in meno di una settimana !
Complimenti per la Sua rivista che leggo avidamente e Le invio un cordiale Shalom.
Renzo Sagues