Yom Kippur 5766
Tefillah: risposta dell’uomo al silenzio di D.
Al Chatàm Sofèr di Pressburg, il celebre Maestro ungherese dell’Ottocento, una volta fu chiesto come mai noi Ebrei preghiamo secondo minhaghim differenti. Ci sono i Sefaraditi, gli Ashkenaziti, gli Yemeniti, gli Italiani, ed altri ancora: sostanzialmente, il Siddur Tefillah è il medesimo per tutti, ma qui e lì vi sono lezioni e divergenze testuali talvolta anche notevoli. Non poteva il S.B. ispirarci affinché tutto Israel si rivolgesse a Lui nello stesso identico modo? Il Chatàm Sofèr dà a questo interrogativo una risposta affascinante. La Tefillah, scrive in uno dei suoi famosi Responsi, è come la Profezia: il vettore è lo stesso, muta solo il “senso di marcia”. Mentre nella Profezia il messaggio scende dal Cielo alla Terra, nel caso della Tefillah esso compie il percorso inverso: sale dalla Terra al Cielo. E come nel Tanàkh, la Bibbia ebraica, troviamo effettivamente Profeti diversi, ciascuno contrassegnato dalla sua personalità e dal proprio stile, ancorché tutti si siano fatti portavoce del medesimo messaggio, è giusto aspettarsi che anche per la Tefillah sia così. Il fatto che ogni Comunità di Israele esprima la propria Tefillah in un modo non del tutto unificato, benché la sostanza del messaggio sia comune a tutte, è una ricchezza e non una debolezza.
Il fenomeno profetico –scrive il Rav Soloveichik- può essere a sua volta interpretato solo nel quadro del concetto di berit, patto. Il rapporto fra l’uomo e D. non è impersonale. La Comunità del patto fondata da D., sceso sulla monte Sinai , e dall’uomo, che ha scalato la montagna, si esprime tramite un dialogo diretto, il cui livello più alto è ben riportato nel versetto che dice: “E l’Eterno parlò a Mosheh vis à vis, faccia a faccia, come un uomo parla al suo compagno”. Anche la preghiera è inimmaginabile senza che l’uomo si ponga al cospetto di D. e gli si rivolga in un modo che ricorda il dialogo profetico. E’ vero che il sentimento che ci spinge ad affrontare questo dialogo si è con il tempo cristallizzato in un testo definitivo ed obbligatorio, per la tendenza dell’impegno religioso ad uscire dall’esperienza soggettiva e a tradursi in un atto oggettivo e preciso. Ciò non toglie che il dialogo con D., implicito anche nell’ etimologia della parola Tefillah, resta l’essenza stessa della preghiera ebraica, così come della Profezia.
Ebbene, la Comunità di Preghiera si è formata nel momento stesso in cui la Comunità Profetica venne meno, perpetuandola. La Tefillah altro non è che la continuazione della Nevuah, e la Comunità dei Mitpallelim (oranti) è ipso facto una Comunità di Profeti. Mentre nella Comunità Profetica è D. che prende l’iniziativa di parlare e l’uomo si limita ad ascoltare, nella Comunità della Tefillah è l’inverso, l’uomo parla e D. è l’uditore. La profezia e la preghiera, espressioni della berit, sono comparse entrambe nel momento in cui Avraham ha avviato il suo dialogo con D. Gli Uomini della Grande Assemblea di ‘Ezrà e Nehemia, dal canto loro, sapevano che se questo dialogo fosse stato troncato, il Popolo Ebraico avrebbe smarrito la sua relazione personale con D., la berit. Dal momento che D. smise di interpellare l’uomo, fu giocoforza che l’uomo interpellasse D. La Tefillah salvò il dialogo. Il rifiuto degli Uomini della Grande Assemblea di accondiscendere al silenzio di D., testimonia il loro profondo senso di dignità: essi sapevano che D. doveva rimanere presente e coinvolto nella vita della Comunità. Se D. non fa più miracoli, sia l’uomo a prendere l’iniziativa.
La nostra Comunità ha vissuto con grande partecipazione il periodo preparatorio a Rosh haShanah e Kippur. Ogni mattina prima dell’alba un Minian abbondante ha recitato le Selichot, le suppliche per ottenere il perdono. E’ bello assistere al risveglio di una Comunità. Non è paragonabile una giornata salutata dalla Tefillah collettiva ad una che si inizia in modo indistinto, privo di questa fonte di ispirazione. Magari fosse così per tutto l’anno! Abbiamo bisogno di forze rinnovate, che contribuiscano a rivivificare il Bet ha-Kenesset con il loro prezioso apporto. Siamo alla ricerca di benemeriti che ogni lunedì e giovedì mattina si rendano disponibili perché possiamo portare avanti quel discorso con D., che è in ultima analisi un colloquio costante con la nostra coscienza ebraica. Non è sufficiente recarsi al Bet ha-Kenesset per le feste. La preghiera, che pure raggiunge l’apice della sua forza nei Giorni Penitenziali, non può essere ridotta ad una esperienza valida solo per alcuni periodi dell’anno. La nostra tradizione ci richiede un impegno continuo, quotidiano.
Talmud Torah: la dignità dell’uomo attraverso lo studio.
Quando Mosheh scese dal Monte Sinai per la seconda volta con le Tavole, era Yom Kippur. La trasgressione del Vitello d’Oro era espiata. Ma fra le prime e le seconde Tavole c’era una differenza. Le prime tavole contenevano tutta quanta la Torah Orale, le seconde no. Sarebbe ora toccato a noi uomini ricostruire, con la pazienza e l’intelligenza, attraverso regole interpretative, il significato della Tradizione. Punizione o promozione?
Nel Tanàkh l’appello all’iniziativa morale e alla responsabilità è ben espresso dal Profeta Mikhah: “Ti è stato detto, o uomo, che cosa l’Eterno ti richiede: Pratica la giustizia, ama la bontà e cammina umilmente con il tuo D.” (6,8). Nell’Ebraismo rabbinico, la dignità dell’uomo trova riscontro non solamente nel richiamo all’etica, ma anche nell’invito alla creatività intellettuale. L’amore che D. avverte per l’uomo lo porta ad auto-limitarsi nel senso di affidare ai Rabbini l’elaborazione della Torah.
“Che differenza c’è fra la Torah Scritta e la Torah Orale? Un re aveva due servi, ai quali diede del grano e dell’ovatta. Il servo saggio prese l’ovatta e ne fece un panno; prese il grano e ne fece farina. Impastò la farina e ne fece del pane. Con il panno apparecchiò la tavola e vi mise sopra il pane che aveva fatto. Il servo stolto non fece nulla. Quando il re tornò, chiese ai due servi di portargli ciò che aveva dato loro. Il saggio mostrò la tavola apparecchiata con il pane, mentre lo stolto esibì il grano, ancora nella sua scatola ricoperta dall’ovatta. Quando il S.B. diede la Torah ad Israel, la consegnò sotto forma di grano e di ovatta. Trarre il pane dal grano e un tessuto dall’ovatta spetta a noi” (Seder Eliahu Zutà, 2).
La libertà intellettuale di andare oltre il senso letterale del testo biblico e di sviluppare un valido sistema legale attraverso il ragionamento consente allo studioso di creare qualcosa di nuovo e non semplicemente di accettare il passato supinamente. Quando il contenuto della rivelazione si traduce in un corpus di leggi e in una serie di commenti, solo allora la berit fra uomo e Dio rivela la sua maturità. Con lo sviluppo della Tradizione Orale, Israel divenne un partner nello sviluppo della rivelazione; a sua volta la Rivelazione cessò di essere il Verbo Divino consegnato una volta per tutte sul Monte Sinai e divenne una Parola aperta, elaborata in modo creativo da infinite generazioni di studiosi.
“Miqrà (Bibbia), Mishnah, Halakhòt, Tosseftòt, Aggadòt. Persino ciò che uno studente dirà in futuro al cospetto del suo Maestro: tutto ciò è stato comunicato a Mosheh sul Monte Sinai” (Lev. Rabbà, 22,1). La rivelazione sul Monte Sinai abbracciava tanto ciò che era esplicito nel testo della Torah, quanto tutto ciò che le future generazioni avrebbero considerato implicito in esso. La Torah divenne inseparabile dalle sue successive interpretazioni e lo studioso assurse ad un ruolo senza precedenti nel determinare il contenuto della Rivelazione.
Ma lo studio del Talmud non è solo un impegno per gli addetti ai lavori. Esso costituisce una immensa sfida per il singolo e per la collettività. Conosco persone che si alzano al mattino molto presto per recarsi al Bet ha-Kenesset, ma non recitano la Tefillah immediatamente: per un’ora studiano, discutono sul testo, consultano commenti, traggono conclusioni. Qualche volta la difficoltà di una questione li costringe ad aggiornare all’indomani il confronto e si prendono una giornata di riflessione. Terminata la Tefillah, essi vanno tranquillamente alle loro occupazioni.
In Italia si è persa da molto tempo questa tradizione, in parte per cause di forza maggiore. Questa lacuna è in buona misura responsabile del declino delle nostre Comunità. Dove non si coltiva lo studio del Talmud, l’Ebraismo non si mantiene a lungo. Fra le tante istituzioni che danno gloria all’Ebraismo italiano, bisognerebbe riproporre un gruppo di persone che si raduna a studiare le fonti rabbiniche, a partire dalla Mishnah, in modo sistematico. E’ una proposta per il nuovo anno.
“Per servirLo con tutto il Vostro cuore”. “Quando la Tefillah e il Talmud Torah si uniscono in un’unica esperienza redentrice –scrive Rav Soloveichik-, la preghiera diviene ‘Avodah she-ba-lev, secondo la definizione di Maimonide. Che cosa significa questa espressione? Non “servizio reso con il cuore”, come di solito la si traduce, bensì “offerta del nostro cuore”. E’ un atto di sacrificio: diveniamo in definitiva consapevoli dei nostri limiti. L’affermazione della dignità dell’uomo, in definitiva, non può andare disgiunta dalla consapevolezza della nostra finitezza, della nostra dipendenza dal Santo Benedetto. Chatimah Tovah.
Rav Alberto Moshe Somekh