Christian Rocca
IL FOGLIO, 25 febbraio 2004
New York. Immaginate due ore di pulp fiction applicate alla passione di Cristo, con torture, scudisciate, martellate, frustate, chiodi infilzati, braccia spezzate, sputi, pugni, calci, sangue, sangue, tanto sangue. Immaginate un Vangelo secondo il Marchese de Sade girato con la consulenza di Quentin Tarantino e troverete Kill Jesus ovvero “The Passion of the Christ”, il film di Mel Gibson che negli Stati Uniti esce domani, mercoledì delle ceneri, ma che ieri il Foglio ha visto in anteprima in una sala privata di Manhattan.
Con la potenza delle immagini e l’uso dell’aramaico e del latino (e dei sottotitoli) il film di Gibson racconta le ultime dodici ore di vita o, meglio, l’inizio della morte e la lenta agonia di Gesù di Nazareth. C’è solo questo, nel film. Non c’è l’insegnamento di Gesù, non c’è la sua missione, non c’è nulla di tutto ciò se non la sua straordinaria soglia di sopportazione del dolore. Più di tre quarti del film sono sulla tortura subita da quest’uomo alto, bello, con la barba e i capelli lunghi come da immaginario e come prescrive quell’antico testo sacro che è “Jesus Christ Superstar” (copyright di Christopher Hitchens). Gesù viene torturato e quando sembra che finalmente sia finita, che abbia ricevuto una punizione più che sufficiente, le torture riprendono più feroci di prima e il sangue sprizza più copioso, il suo corpo viene battuto, brandelli di carne si staccano, gli occhi sono così gonfi da non potersi più aprire. La violenza del film è brutale, assoluta, selvaggia, quasi grottesca, come in “Pulp Fiction” appunto, spesso evidenziata dall’uso della slow motion. Gibson ha voluto far sentire quel dolore anche agli spettatori, e c’è riuscito, e più continuano le torture e le percosse lungo la via Crucis più chi guarda il film si sente in colpa per non essere in grado di fermare il massacro. Lo scopo di Gibson è proprio quello di farci sentire peccatori e corresponsabili, ancora oggi, della morte di nostro Signore, avvenuta duemila anni fa. Gli ebrei e i romani
Gli ebrei sono cattivi. Sono cattivi assoluti. Traditori, brutali, avidi. Vogliono fin dal primo minuto mandare a morte Gesù, e non hanno esitazioni né dubbi. Il sommo sacerdote del Sinedrio, Caifa, urla ogni due minuti “a morte, a morte” e aizza la folla ebraica a chiedere la condanna, come neanche a una riunione di MicroMega. La crocifissione come momento magico dell’ebraismo, così sembra.
I romani sono, invece, buoni. All’inizio sembrano addirittura il Settimo cavalleggeri, sembra che siano arrivati i nostri quando impediscono il linciaggio notturno di Gesù. Ponzio Pilato, governatore della Palestina, non è la rude longa manus di Roma a Gerusalemme, è piuttosto una specie di Paul Bremer appena giunto da Yale per ricostruire la Palestina. Non vuole condannare Gesù, cerca in tutti i modi di salvarlo, tenta ogni trucco, chiede pietà, si interessa di questioni teologiche, una specie di governatore compassionevole. Cede solo perché il suo innocentismo ha fatto già scoppiare una rivolta del popolo ebraico. Se ne lava le mani perché teme che il prossimo a essere linciato potrebbe essere lui.
Nella seconda metà del film, una volta condannato Gesù, gli ebrei non sono più centrali nel racconto. Le folle giustizialiste scompaiono, più Gesù si avvicina faticosamente al Golgota più restano solo i suoi pochi fedeli, quelli che tentano di dargli una mano, che gli vorrebbero dare conforto. Nel momento clou della via Crucis, a pochi passi dal luogo della crocifissione, quando ormai il corpo e il viso di Gesù hanno perso sembianze umane per trasformarsi in un dipinto di Caravaggio, gli si avvicina la Veronica per asciugargli il viso ma la scena perde pathos quando lo spettatore italiano si accorge che la Veronica è interpretata dalla bravissima Sabrina Impacciatore, già imitatrice di Marina La Rosa del Grande Fratello.
Gli ebrei buoni sono solo quelli convertiti. E’ un’impressione confermata da una delle ultimissime scene di “The Passion” quando Gesù muore e si avvera la profezia della distruzione del Tempio di Gerusalemme (in realtà un falso, il Tempio di Gerusalemme è stato distrutto dai romani una quarantina di anni dopo). Lì Caifa, interpretato da Mattia Sbragia, capisce di avere ucciso Dio.
Anche i romani cambiano nella seconda parte del film. Se all’inizio sono i buoni, in seguito sono i cattivi torturatori di Cristo. La violenza dei soldati è gratuita, paradossale. I capi restano ancora buoni, di tanto in tanto intervengono per fermare il macello.
Oltre a questo ritratto del Sinedrio e del popolo ebraico sono due i momenti a rischio di antisemitismo. Uno è nascosto, l’altro è palese. Quest’ultimo si trova a metà del film e segue la terribile scena delle frustate e quant’altro a Gesù, ordinate da Pilato per andare incontro ai desideri del popolo ebraico. A differenza di altri film, anche quelli più violenti, gli spettatori non vedono soltanto lo strumento di tortura e poi la ferita sul corpo dell’attore, ma anche il punto di contatto e lo vedono ripetuto per una cinquantina di volte. La scena è interrotta da uno dei vice di Pilato che porta Gesù di fronte al suo capo e al cospetto del popolo di Gerusalemme. Pilato, ritratto sempre più come il secondo eroe del film, guarda con orrore quanto è stato fatto a Gesù e quindi chiede agli ebrei guidati da Caifa: “Non è abbastanza?”. “No, crocifiggilo”, urla la folla aizzata dal capo del Sinedrio. Pilato, allora, quasi implorante chiede a Gesù di dire qualcosa: “Non sai che ho il potere di liberarti e quello di crocifiggerti?”. Gesù gli dice che il potere proviene da Dio e, riferendosi al capo religioso degli ebrei, dice: “Chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande”. Il versetto non tradotto
La seconda accusa di antisemitismo è nascosta nella stessa identica scena, ed è comprensibile soltanto a chi parli aramaico o abbia studiato il Talmud. Nel momento in cui Pilato se ne lava le mani e decide per la condanna, si alza una voce dalla folla che urla un versetto del Vangelo secondo Matteo che da duemila anni è considerato una delle cause principali dell’antisemitismo antico e moderno: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. Gibson ha deciso di non fornire la traduzione del versetto, proprio per evitare polemiche e accuse, ma lo ha lasciato nella lingua originale. Il regista è certo che i Vangeli siano il racconto dettagliato e fedele di quattro discepoli-cronisti presenti sul luogo dove sono successi i fatti. Lo ha detto anche esplicitamente in due recenti interviste televisive: “Queste cose sono scritte nella Bibbia, e chi le ha scritte c’era, era lì, le ha viste”. La questione è controversa, nonostante gli ultimi studi dicano il contrario c’è chi resta convinto che i Vangeli siano stati scritti molti anni dopo i fatti che narrano.
Gibson è convinto di aver fatto un film fedele a come si è svolta la storia quel giorno del 33 (altre datazioni dicono il 30) dopo Cristo e ha scelto qua e là dai Vangeli le frasi e gli elementi per ricostruirla.
Fatta eccezione per la presenza del diavolo, interpretato da Rosalinda Celentano, non c’è quasi spazio per l’interpretazione artistica o per il tocco dello sceneggiatore. Quello che c’è scritto nelle Scritture è sacro e come tale va rispettato e professato. Le interpretazioni del testo e le dispute teologiche sono sovrastrutture, secondo Mel Taliban Gibson, il quale per interpretare Gesù ha scelto James Caviezel, un bravo attore con la fortuna di avere le iniziali, JC, uguali a quelle di Jesus Christ. E’ sufficiente la grandiosa potenza della parola di Dio. E’ il Vangelo, bellezza e non puoi farci niente.
Una risposta al rabbino Di Segni
Alma Cocco
Il rabbino Di Segni esprime autorevolmente il punto di vista del 99% degli ebrei dal 335 e.v. , anno in cui il cristianesimo è divenuto religione ufficiale dell’Impero Romano. Essendo io politeista e non avendo alcun legame col mondo ebraico (a parte alcuni amici) credo di potermi permettere di dissentire da questa interpretazione.
I vangeli sono antisemiti. E lo sono per una necessità fisiologica. Non si tratta del semplice sottofondo storico dal quale i vangeli sembrerebbero esser scaturiti; ma del loro proprio stile linguistico. A differenza di altri testi sacri (il Vecchio Testamento, l’Iliade e l’Odissea, ma anche Eschilo e Sofocle) dove si raccontano storie sulle quali il lettore può, se vuole, riflettere o trarre insegnamenti utili per la vita, i vangeli sono scritti per convincere.
In termini propriamente tecnici, la funzione principale del linguaggio in cui sono scritti non è referenziale (ossia quella di comunicare qualcosa), ma imperativa; ossia il loro stile è prevalentemente quello di imporre qualcosa o convincere di qualcosa. Per esemplificare, mentre nessuno dei personaggi biblici è immune da pecche e persino Mosé appare per quello che è (un uomo straordinario che però si è macchiato di un omicidio), i vangeli si caratterizzano per la quasi manichea divisione tra buoni e cattivi, per la presentazione agiografica dei personaggi e per la conseguente falsificazione delle storie narrate.
Si può dire che la rottura tra i seguaci di Cristo e l’ebraismo sia avvenuta, non solo sul piano dei contenuti, ma persino sul piano dello stile della comunicazione. Mentre lo stile dei libri ‘sacri’ è quello di non nascondere nulla al lettore e di non deificare nessuno dei personaggi presentati nel testo, i vangeli sono stati costruiti o ricostruiti secoli dopo i fatti ai quali si riferiscono col fine di indurre il lettore a condividere un certo punto di vista. E qui sta il loro limite. E’ inevitabile, perciò, che accanto ai personaggi ‘deificati’ vi siano rappresentati anche tutti gli altri, ‘i cattivi’, la cui unica colpa è quella di non seguire l’insegnamento di Cristo. Ma tutti questi altri sono gli ebrei che non hanno condiviso quel tipo di interpretazione.
Se i seguaci di Budda avessero fatto lo stesso nell’India di venti secoli fa e nei confronti degli induisti, oggi avremmo un anti-induismo altrettanto diffuso che l’antisemitismo. Ma, grazie al cielo, i seguaci di Budda non vogliono imporre la loro religione a nessuno e convivono pacificamente e senza problemi con gli innumerevoli altri culti presenti nell’area indiana.
La domanda è perciò un’altra: perché i vangeli (e la Chiesa) si accaniscono così tanto contro il resto del mondo, e segnatamente contro gli ebrei? perché non si accontentano di esistere senza sparlare di qualcuno? perché devono cercare a tutti i costi di colpevolizzare chi non condivide del tutto o in parte le loro convinzioni? in breve, quale necessità fisiologica si nasconde dietro un insieme di atti assai coerenti che possono essere classificati come ‘antigiudaismo’? Ma questo è un altro aspetto della stessa storia.