Cari amici, trascorsa l’estate riprendiamo il ciclo dei commenti alla parashà settimanale. La scorsa settimana è iniziato il mese di Elul, ultimo mese dell’anno, quello che precede Rosh ha shanà – il capo d’anno: quel giorno definito dai Maestri del Talmud, con l’appellativo di “jom ha din – il giorno del giudizio”.
In previsione di tale giornata e di tutto il periodo successivo, che culmina con lo Jom Kippur, noi ebrei abbiamo il dovere di fare teshuvà – ritorno alle buone azioni e al comportamento dettatoci dalla Torà.
La teshuvà, non è un’opzione, bensì un dovere di ogni ebreo che deve mettere in pratica in ogni momento della propria vita, ma intensificare in queste giornate.
Il mese di Elul è definito “chodesh ha selichot ve ha rachamim – il mese delle scuse e della misericordia”.
Infatti durante questo mese gli ebrei, nel profondo della notte, recitano delle preghiere speciali, chiamate Selichot, in cui aprendo il loro cuore, si rivolgono a D-o, invocandone il perdono per le azioni fatte verso il proprio simile e chiedendogli di concedere ogni bene.
Come si può chiedere a D-o qualcosa, se non siamo stati noi per primi a concederla ai nostri simili, che ce l’hanno implorata?
I rabbini della Mishnà ci insegnano che chi si rivolge a D-o facendo teshuvà, ma prima ha avuto un atteggiamento indegno, quella teshuvà non ha alcun valore.
La parashà di ki tezzè, che leggeremo questo shabbat, parla del comportamento che l’ebreo, sia come singolo che come popolo, deve avere nella terra di Israele; non ha apparentemente nulla a che vedere con la teshuvà.
Da questo sabato, si contano tre sabati prima di rosh ha shanà, nei quali leggeremo le parashot di:
Ki tezzè, Ki tavò e Nizzavim (quest’anno legata anche a Vajelekh).
La parola Ki tezzè significa:”Quando uscirai”; Ki tavò invece vuol dire “Quando verrai”; mentre Nizzavim “Starete dritti in piedi”.
I maestri dell’ esegesi ci fanno notare che queste tre azioni corrispondono precisamente con il comportamento dell’uomo nella sua vita.
Un uomo sicuro, pieno di sé esce di casa per dimostrare a se stesso ed alla società la propria esperienza e capacità di sopravvivere senza l’aiuto di nessuno.
Un atteggiamento di orgoglio ed arroganza che presto si tramuterà in paura e insicurezza.
A questo punto si fermerà e inizierà un processo psicologico in cui si chiederà se il suo atteggiamento è quello ideale ad un uomo ; quindi tornerà indietro, verso la sua casa (ki tavò), dove ha ricevuto affetto, calore e soprattutto sani insegnamenti.
Tutto ciò dovrà farlo con il massimo dell’umiltà e non solo; dovrà anche sottostare (in piedi – nizzavim) ai rimproveri delle persone a lui care e che tanto hanno confidato in lui.
Soltanto dopo questo processo potrà essere pronto alla teshuvà.
Su ciò noi ebrei abbiamo il dovere di riflettere per non incombere in errori che possono essere fatali al nostro perdono, confidando nell’aiuto del Signore nostro D-o.
Shabbat shalom e chodesh tov