Di tutti gli organi del corpo, il cuore è il simbolo accettato dell’emozione. Questa metafora non è impiegata solo dalle varie lingue, compresa la lingua italiana (cuore spezzato, amare con tutto il cuore, avere il cuore in mano…), ma viene usata dalla Torà stessa. Veyadatà hayom vaashevotà el levavecha (e oggi sei consapevole e, letteralmente, tornerai al tuo cuore), veram levavechà (e il tuo cuore si inorgoglirà), velo taturu acharè levavchem, non devierete dai vostri cuori, lo yira libi (il mio cuore non avrà paura), chazek veyametz libecha (rafforza il tuo cuore).
Rabbenu Bechaya Ibn Paquda intitolò la sua opera magna, Chovot haLevavot, i Doveri del cuore. Non la chiamò Doveri del Cervello o Doveri dell’Anima, ma piuttosto Doveri del Cuore. Perché non è il cervello, l’epicentro delle nostre vite sentimentali? Secondo gli antichi Greci il cuore è il centro dell’emozione perché osservavano la frequenza cardiaca; il battito è direttamente influenzato dal modo in cui le persone si sentono in quel momento. Quando le persone si eccitano il loro cuore accelera, quando sono tristi il loro cuore si sente pesante e quando sono spaventate il loro cuore batte forte nel petto. La verità è che, sebbene abbiamo fatto progressi scientifici e ora sappiamo che l’emozione è prodotta nel cervello e non nel cuore, questo organo rimane comunque direttamente correlato all’emozione e l’emozione ha un grande impatto sul cuore.
Nella Torà è scritto: “Lo yavò amoni umoavi bikhal Hashem“. Ci viene detto di non sposare un ammonita o un moabita, anche se si convertono. Perché no? La Torà stessa fornisce la risposta. I discendenti di Moav non possono entrare a fare parte del popolo ebraico perché hanno incaricato Bilam di maledirci e quindi hanno mostrato grande crudeltà. Anche Ammon ci ha trattato con insensibilità e freddezza. “Al davar asher lo kidemù etchem balechem uvamayim baderech betzetechem mimitzrayim””, perché non vi hanno accolto con pane e acqua sulla strada quando stavate lasciando l’Egitto. Eravamo esausti, sfiniti e bisognosi, affamati, stanchi e logorati. Quale fu la reazione della gente di Ammon? L’indifferenza. Si rifiutarono di mostrare compassione e non si lasciarono commuovere dalla nostra situazione. La Torà attraverso il divieto di effettuare queste unioni ci insegna quindi che non possiamo rischiare di assorbire questo comportamento, questa insensibilità e questa crudeltà. Il popolo ebraico deve distinguersi per la caratteristica esattamente opposta. Dobbiamo essere riconosciuti per avere i cuori più grandi, più generosi, benevoli e gentili. La Ghemarà nel Trattato di Betzà daf 32v scrive che “gli ebrei sono “rachamanim benè rachamanim”, compassionevoli i figli di compassionevoli. Gentilezza, sentimento e cuore sono, secondo la Ghemarà, geneticamente programmati nel nostro DNA spirituale.
Esulando dalla Parashà per un momento, potrebbe non essere solo una conicidenza il fatto che quando c’è una crisi umana o una catastrofe in qualsiasi parte del mondo, spesso è lo Stato di Israele il primo a rispondere e il primo ad arrivare sulla scena per aiutare. Dobbiamo essere rachamanim benè rachamanim e questo è il tema non solo della nostra Parashà, ma è anche il tema di fondo di molte mitzvot che ci sono state comandate. In molte mitzvot, infatti, traspare l’obiettivo di coltivare gentilezza, sensibilità e cuore. In queste ultime settimane in cui mano mano ci avviciniamo alla fine del libro di Devarim, leggiamo della mitzvà di mandare via la madre uccello prima di prendere le uova che stava custodendo (Shiluach haKen).
Questa mitzvà, per quanto in parte misteriosa ed oggetto di molti commenti tra i chachamim, ha tra i suoi scopi di preservare il nostro cuore, di mantenere la nostra sensibilità e compassione, anche verso un uccello. Altrove, la Torà ci introduce alla mitzvà di hashavat aveda, la restituzione di un oggetto smarrito, terminando la descrizione di questa mitzvà col mandato: “lo tuchal lehit’alem, non potrai, non dovrai ignorarlo“. Sii sensibile, abbi un cuore, riconosci che se qualcuno ha perso qualcosa è probabilmente ansioso di recuperarlo. Avere un cuore sano significa prendersi cura, notare, sentire, essere sensibili, emozionarsi. I sintomi della malattia cardiaca sono insensibilità ed indifferenza. Questa è una malattia della quale siamo tutti vulnerabili e di cui molti soffrono e in effetti ognuno di noi si scuserà per questo tra poco. Durante lo Yom Kippur chiuderemo la lista dei peccati che recitiamo nella tefillà nella parte in cui diciamo al chet dicendo al chet shechatanu lefanecha betim’on levav. Rashi spiega che il significato della locuzione tim’on levav è otem halev, l’intasamento del cuore.
Proprio come il colesterolo intasa le arterie fisiche e contribuisce alle malattie cardiache, così anche l’apatia, l’indifferenza e l’insensibilità ostruiscono le arterie spirituali e contribuiscono alla durezza del cuore. Oggigiorno a causa della vita che è diventata sempre più frenetica, la richiesta di energia e risorse che dobbiamo dedicare sono aumentate, abbiamo perso lo spazio e la concentrazione necessari per fermarci e percepire. Non abbiamo tempo o la capacità di fermarci ed elaborare ciò che abbiamo visto, letto o guardato. Viviamo a velocità elevata e ciò significa che stiamo perdendo sempre più la capacità di essere toccati e di avere sentimenti.
Nel suo diario Tzav Veziruz, scritto negli anni ’30, il Rebbe di Piaseczner, Rav Kalonymous Kalman Shapira, morto nel ghetto di Varsavia, scrisse con grande lungimiranza dell’importanza di mantenere la nostra capacità di sentire e stimolare i nostri sentimenti in modi sani: L’animo umano assapora le sensazioni, non solo se sono piacevoli, ma per l’esperienza stessa della stimolazione. Meglio la tristezza o un dolore profondo piuttosto che la noia della non stimolazione. Le persone guarderanno scene angoscianti e ascolteranno storie strazianti solo per ottenere stimolazione. Questa è la natura umana ed un bisogno dell’anima, proprio come le sue altre necessità e nature. Quindi chi è intelligente soddisferà questo bisogno con preghiere appassionate e studio della Torà. Ma l’anima il cui servizio divino è privo di emozioni dovrà trovare la sua stimolazione altrove. Sarà spinta verso sensazioni a buon mercato, persino proibite, o si ammalerà emotivamente per mancanza di stimolazione.
Verso la fine della Parasha, è scritto: “Moshe convocò tutto Israele e disse loro: ‘Avete visto tutto ciò che D-o ha fatto davanti ai vostri occhi nella terra d’Egitto, al Faraone e a tutti i suoi servi e a tutta la sua terra, le grandi prove che i vostri occhi hanno visto, quei grandi segni e prodigi'”. [Devarim 29:1-2] Segue un pasuk sconcertante: “E il Signore non vi ha dato un cuore per comprendere, occhi per vedere e orecchie per udire fino a questo giorno”. [Devarim 29:3] A cosa si riferisce Moshe?
Rashi spiega che in quel giorno, Moshe scrisse e diede un Sefer Torà alla tribù di Levi. I rappresentanti di tutte le altre tribù si presentarono davanti a lui per protestare e chiesero: “Anche noi eravamo presenti al Sinai, abbiamo accettato la Torà e meritiamo la nostra copia del Sefer Torà. Perché permetti alla tua tribù di essere proprietaria della Torà? Forse un giorno negheranno che la Torà ci sia mai stata data”. Rashi nota che Moshe, rallegrandosi per questa reazione, commentò: “Oggi siete diventati una nazione”. Oggi riconosco che desiderate la vicinanza di D-o. Questa richiesta avanzata dalle altre tribù sembra essere ridicola, infantile. Ricorda le lamentele nelle rivalità tra fratelli: Perché allora Moshe si rallegrò? Perché questo ha permesso a Moshè di dire: “Oggi so che volete la vicinanza di D-o?”
I Chachamim spiegano che quando vogliamo davvero giudicare una persona, è meglio non giudicarla dal modo in cui si comporta a Neila, alla fine di Kippur, ma è meglio giudicarla dal modo in cui si comporta quando è ubriaca a Purim. Quando le persone si ubriacano a Purim, a volte dicono cose assurde, ridicole. Somigliano ad una persona che non sta in guardia, e, in questo frangente, è possibile vedere la loro vera essenza. Il fatto che il resto delle tribù fossero così preoccupate ci dice più di qualcosa. La loro non era una reazione preparata, era una reazione istintiva dalla quale scaturisce la loro vera essenza ed è per questo che Moshe si rallegrò. La Torà ci insegna ad interiorizzare comportamenti positivi, etici, di chesed e di giustizia, attraverso le mitzvot, affinché queste caratteristiche diventino parti fondanti della nostra persona. Possiamo prenderci l’impegno di sforzarci per migliorare, lo possiamo fare nel mese di Elul, a Rosh haShanà ma anche durante l’anno. Non è mai troppo tardi per iniziare.